Wednesday, September 19, 2012
Tuesday, June 5, 2012
Monday, June 4, 2012
di MATTHEW FORDE
Negli ultimi decenni si è assistito a un costante interesse intorno a John Henry Newman (1801- 1890), e si è intensificata la ricerca sulla vita e l’opera di quello che può essere considerato il più famoso convertito inglese al cattolicesimo degli ultimi due secoli. Il dibattito si è focalizzato sulle sue multiformi qualità di filosofo, teologo, pensatore, accademico, scrittore, poeta, autore di una autobiografia, agiografo, teorico dell’università, predicatore, tanto per citare le più evidenti. Tuttavia, ci si potrebbe avvicinare a lui anche da un altro punto di vista, per comprenderlo da un’altra prospettiva: Newman guida, e spesso ispira, una linea particolare di membri dell’alta cultura inglese che dalla metà del XIX secolo in poi si sono convertiti a Roma, e questo in un Paese che non solo ha avuto una forte eredità protestante e dove il cattolicesimo era di gran lunga una forza minoritaria, ma che nel corso del XX secolo, e soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, ha subìto un processo molto intenso di secolarizzazione. Nella valutazione di questo filone eccezionale incontriamo un gruppo di intellettuali e scrittori di notevole valore che hanno costituito una caratteristica speciale del moderno panorama culturale britannico. Da un punto di vista storico, dunque, Newman, uomo di alta cultura, era un convertito in mezzo a convertiti dello stesso genere, ed esplorando le figure chiave di questo filone, di cui fu probabilmente l’esempio più significativo, notiamo una categoria storica alla quale apparteneva. Si può dare una categorizzazione specifica di Newman. Possiamo considerare figure come Robert Hugh Benson, Gilbert Keith Chesterton, Christopher Dawson, John Henry Gray, Gerard Manley Hopkins, Siegfried Sassoon, Muriel Spark e Evelyn Waugh. Che cosa hanno in comune? Qual era il loro vero significato storico come gruppo? Per cominciare, alcune osservazioni introduttive. In primo luogo, è necessario collocare questo filone nel proprio contesto religioso. La Gran Bretagna del XIX secolo aveva una forte eredità protestante, benché composta di diverse denominazioni. Nel 1851 uno speciale censimento religioso evidenziava che forse la metà della popolazione di Inghilterra e Galles dai dieci anni in su era andata alla celebrazione di domenica 30 marzo dello stesso anno. Non conformisti e anglicani divisi grosso modo in parti eguali, con i cattolici che costituivano il 4 per cento di questa categoria. Ma il XX secolo è stato un periodo di declino. Ad esempio, se nel 1920 il 23 per cento circa della popolazione adulta partecipava attivamente alle Chiese protestanti della Gran Bretagna, questa cifra era scesa a circa il 18 per cento intorno al 1945; e nel 2005 solo 3,2 milioni di persone in Inghilterra (ben al di sotto del 10 per cento della popolazione) andavano regolarmente in chiesa la domenica. Diminuiscono i matrimoni religiosi, la frequenza alla Scuola di Domenica, o l’importanza della religione nella politica e nella fedeltà ai partiti, e sono tutti ulteriori fenomeni nel processo di decristianizzazione, che sembra essersi intensificata con il passare del XX secolo. In secondo luogo, in Gran Bretagna nel corso del XIX e del XX secolo studiosi, intellettuali, scrittori e giornalisti vivevano in un Paese che forniva loro un clima radicato di libertà di espressione. Tale libertà, che godeva di popolarità trasversale, risaliva indietro nel tempo e costituiva un fondamento essenziale per il progresso della democratizzazione a livello locale e nazionale negli anni 1832-1918. La crescita di una democrazia liberale, aliena da regimi assolutisti, autoritari e totalitari, aveva dato al Regno Unito un profilo molto particolare in Occidente. Polizia segreta, censura politica, liste proibite, e altri fenomeni del genere, ben noti nel continente europeo, brillavano per la loro assenza in Gran Bretagna. Questa libertà era essenziale per lo sviluppo della scrittura nelle isole britanniche e ne costituiva uno stimolo naturale. L’enorme produzione di pubblicazioni accademiche, la marea di giornalismo, l’effusione di romanzi, la produzione massiccia di poesia, autobiografia, racconti, libri di viaggio, diari e tutto il resto ha avuto luogo in un contesto che conferiva libertà a coloro che volevano scrivere. La vivacità e la vitalità della cultura alta — alla quale questi cattolici convertiti appartenevano — in Gran Bretagna nel corso degli ultimi duecento anni è stata favorita da ciò che era realmente un «valore nazionale ». Infine, vivacità e vitalità simili erano anche diretto risultato del raggiungimento di elevati livelli di istruzione. Una caratteristica del protestantesimo in Gran Bretagna a partire dalla Riforma è stata l’impulso che ha dato all’istruzione. Il desiderio di far avere accesso diretto allaBibbia portò con sé l’esigenza di far leggere e scrivere le persone, e dalla prima parte del XIX secolo, anche a causa di questo impulso, i britannici sono stati uno dei popoli più alfabetizzati in Europa. La ricerca sui membri più in vista del filone dei convertiti britannici di cultura alta al cattolicesimo nel corso degli ultimi 150 anni mette bene in vista la loro eterogeneità: di provenienza operaia, dalla classe media e alta (pure con sfumature e colori diversi); politicamente, a sinistra, centro e destra; di origini gallesi, scozzesi e inglesi; spaziando dalla presenza agli occhi dell’opinione pubblica fin quasi alla solitudine; membri del clero e membri del laicato; nato in una varietà di origini religiose; di sensibilità varie e forme di espressione intellettuali e artistiche; alcuni erano stati militari e altri non lo erano stati, alcuni erano legati all’estetismo e altri non lo erano. Eppure, nonostante l’evidente diversità, ciò che unisce questo gruppo è il loro impegno per il cattolicesimo e il loro desiderio di promuovere, implicitamente o esplicitamente, il cristianesimo attraverso la cultura alta, nella quale — e in questo senso non è un caso che fossero britannici — erano profondamente impegnati. Questo era, naturalmente, un preciso obiettivo del cardinale Newman, ed è un elemento ricorrente in questi scrittori e pensatori la sua ammirazione. E per quanto riguarda l’imp ortanza della cultura alta per Newman vale la pena di ricordare la sua The Idea of a University Defined and Illustrated (1873), che sottolineava l’importanza di formare la mente, piuttosto che di impartire conoscenze utili; del primato dell’insegnamento sulla ricerca, e dell’apprendimento della teologia e il valore del sistema tutoriale: quasi un manifesto per la produzione di alta cultura di ispirazione cristiana. Un’altra figura di riferimento in questo senso, per questi cattolici convertiti, fu Lord Acton (1834-1902), membro di un’antica famiglia cattolica di proprietari terrieri, per un po’ di tempo deputato liberale (1859-1865), scrittore di religione, politica e storia, che divenne Regius Professor di Storia moderna presso l’università di Cambridge nel 1895. Nelle sue Lectures on Modern History (1906), che includevano la lezione inaugurale, espose idee su questo ramo della cultura alta (va notato che le discipline storiche sono state molto sviluppate dagli inglesi durante il XVIII e XIX secolo — si pensi a Gibbon, Macaulay, Carlyle e a Froude) con i quali Newman sarebbe andato certamente d’a c c o rd o . Nella loro convinzione della promozione del cristianesimo attraverso la cultura alta questi convertiti cattolici si misero in collegamento con un filone di altri autori cristiani che avevano esattamente lo stesso obiettivo. Il pensiero va, ovviamente, a Dickens (1812-1870), i cui romanzi erano un chiaro prodotto della mentalità protestante radicale; a Christina Rossetti, anglicana e autrice di poesia religiosa di altissima qualità; Belloc, cattolico di nascita, che andò in parallelo, e talora prese parte, a molte delle attività di Chesterton; Lewis (1898-1963), accademico di Oxford e anglicano, che aveva una particolare considerazione della comunicazione della fede cristiana ai giovani, come il suo Romanzi di Narnia, il suo amico, Tolkien (1892-1973), accademico di Oxford cattolico di nascita, che sottolineava come la sua opera più nota, Il Signore degli Anelli (1954-1955), fosse fondamentalmente religiosa e cattolica nel carattere, e soprattutto di Eliot, convertito all’anglicanesimo (e alla sua corrente anglo- cattolica). La cosa particolarmente interessante di Eliot, in questo senso (e qui rimanda a Newman) è che in una serie di opere (After Strange Gods, 1934; The Idea of a Christian Society, 1940; Notes Towards the Definition of Culture , 1948) teorizzò la promozione della cultura cristiana (e la conservazione del patrimonio cristiano) attraverso il lavoro dei membri della cultura alta come lui. Ma quel che più conta in tutto questo sforzo è che questi membri dell’intellighenzia cristiana britannica stavano andando contro la corrente storica. Di questo, naturalmente, Eliot stesso era ben consapevole, e nel suo poema The Waste Land (1922) rilevò ciò che la modernità e le sue dinamiche anti-cristiane avevano in serbo. Anzitutto, come molti di questi cattolici convertiti ripetutamente sottolineavano, la società britannica e occidentale si allontanavano dalle radici cristiane: si trovavano a operare in una cultura generale che abbandonava sempre più la religione. In secondo luogo, la cultura alta in sé stava diventando sempre più secolarizzata. Quel che realmente colpisce l’obiettivo osservatore britannico dell’intellighenzia artistica non è soltanto come i suoi membri siano sempre più non-cristiani, ma anche come producano gruppi decisamente anti-cristiani. Se si osservano i membri del movimento romantico (Shelley, Byron), il Bloomsbury Group , il gruppo Auden degli anni Trenta, l’Angry Young Men degli anni Cinquanta, i sostenitori della contro-cultura degli anni Sessanta, o gli scrittori della postmodernità di oggi, si incontrano scrittori che hanno creduto nel ripudio e nello smantellamento del patrimonio cristiano. È chiaro che in questo essi stessi hanno contribuito in maniera importante alla secolarizzazione della società britannica. Da questo punto di vista, il vero significato storico di Newman e dei più importanti convertiti britannici cattolici che gli hanno fatto seguito nel suo filone, è che essi erano sostenitori della cultura alta, in uno dei Paesi più altamente istruiti e liberi del mondo, che come forza di minoranza, senza successo, cercarono di arrestare quello che probabilmente costituiva il più importante sviluppo culturale dei tempi moderni: la decristianizzazione.
© Osseravtore Romano - 30 maggio 2012
Saturday, April 28, 2012
Il battesimo dell'immaginazione: un viaggio con John Henry Newman
Tuesday, January 3, 2012
Quel Natale del 1832
Nell’inverno del 1832 John Henry Newman (1801-1890), allora sacerdote anglicano e parroco nella chiesa universitaria di St Mary the Virgin presso Oriel College a Oxford, accettò l’invito dell’amico Richard Hurrell Froude (1803-1836) e di suo padre e li seguì in un luogo viaggio nel Mediterraneo: l’auspicio era che il clima mite e favorevole del mare nostrum tra Italia, Malta e Grecia consentisse al giovane Froude di superare la tubercolosi che lo affliggeva da tempo.
Purtroppo le loro speranze si rivelarono vane e anch’egli – come la Silvia leopardiana, “da chiuso morbo combattuto e vinto” – concluse la sua intensa ma gracile vita qualche anno dopo, mentre partecipava alle prime ed eroiche fasi del movimento trattariano di Oxford, per il quale seppe coniare una definizione tra le più efficaci e folgoranti: “noi siamo cattolici senza papismo e uomini nella Chiesa d’Inghilterra senza protestantesimo”.
Durante il viaggio, il piroscafo Hermes che trasportava i tre fu costretto a una sosta forzata a Malta nel mese di dicembre di quello stesso anno: c’era, infatti, la necessità che i naviganti si sottoponessero a un periodo di quarantena nel locale lazzaretto, come misura preventiva nei confronti di cittadini inglesi che avrebbero potuto trasferire altrove l’epidemia di colera che aveva impazzato in Inghilterra e che in terra d’Albione era però stata felicemente debellata.
Come ha scritto Sheridan Gilley in Newman and His Age (2003), “mentre la nave imbarcava carbone nell’isola, Newman passò un ‘miserevole giorno di Natale’ in quarantena, un ‘Natale senza Cristo’ – com’egli stesso lo definì nei suoi versi – privato dei sacramenti e ‘del conforto e dell’ordine di un’istituzione ecclesiastica riconosciuta’”. In questa sua triste esperienza fu solo parzialmente consolato dal mirabile panorama dei mulini a vento e dal festoso scampanio che proveniva dalle chiese dell’isola.
Natale senza Cristo – della quale questa breve nota offre di seguito una traduzione inedita – è, effettivamente, il titolo di una poesia che Newman concepì proprio nel giorno di Natale del 1832. Nel 1836, Christmas without Christ (così recita l’intestazione dell’originale inglese) fu poi inclusa (con il diverso ed emblematico titolo A Foreign Land) nella sezione Home del celebre volume antologico Lyra Apostolica, che si proponeva “di richiamare e di raccomandare al lettore alcune importanti verità cristiane che corrono il rischio di essere dimenticate ai nostri giorni” – emblematico riflesso, questo, del pensiero di Newman sul ruolo rilevante e strategico della letteratura che dovrebbe essere più adeguatamente indagato e compreso (nonché, forse, altrettanto adeguatamente riattualizzato oggidì)...
Natale senza Cristo
Come posso celebrare la mia festività del Natale
nel suo doveroso aspetto di festa,
orbato come sono della vista del Sommo Sacerdote
dal quale tutte le natalizie glorie discendono?
Odo campane melodiose tutt’intorno,
le torri benedette scorgo;
forestiero su un suolo straniero,
mi rivolgono un appello perché io digiuni.
Sudditi britannici, ora così valorosi e nobili,
come piangerete nel giorno
in cui Cristo Giudice passerà oltre,
e chiamerà altrove la sua Sposa, la Chiesa!
Allora il vostro Natale perderà la sua gioia,
la vostra Pasqua la sua florida bellezza;
ovunque, scene di conflitti e carestie;
nelle case, miserabili dimore!
Secondo il letterato e teologo anglicano Edwin Abbott Abbott (1838-1926), in Natale senza Cristo – come nelle altre poesie coeve di Newman – “spira il sentimento di un Cristianesimo che, se deve essere realtà, deve essere una religione austera, dura e militante” (The Anglican Career of Cardinal Newman; 1892). In tempi assai più recenti, invece, il gesuita Vincent Ferrer Blehl (1921-2001), che fu postulatore della causa di beatificazione di Newman, vi ha individuato un profondo “senso di solitudine” (Pilgrim Journey: John Henry Newman 1801-1845; 2001).
In realtà, come gli accade costantemente, anche in Natale senza Cristo, Newman non resta confinato al dato romanticamente personale – che è valorizzato dai rilievi senza dubbio autorevoli e legittimi di Abbott e Blehl – ma vi esprime soprattutto il senso della sua profonda preoccupazione per le complessive sorti del suo Paese, drammaticamente trasformato dalle iniziative legislative del “progressismo riformista” degli anni 1828-1833 – spesso agnostico, quando non esplicitamente antireligioso – che lo hanno reso irriconoscibile.
Ecco qualche indizio non macroscopico – e, dunque, solitamente trascurato più di altri – ma sostanziale in questa direzione interpretativa. Pare, innanzitutto, orientata alla rivitalizzazione della consapevolezza identitaria della sua comunità patria la scelta dell’espressione “to keep a feast” nel primo verso del testo inglese (nella traduzione qui proposta: “celebrare una festività”): non casualmente, infatti, tale espressione compare in un passo assai emblematico di Exodus 12,14 (secondo la versione dell’anglicana King James Bible del 1611) che anche la Bibbia di Gerusalemme legge efficacemente come segue: “questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore: di generazione in generazione, lo celebrerete come un rito perenne”.
Inoltre, altrettanto significativa per la sua forza nell’indicare la prospettiva risolutiva di una conversione comunitaria e nazionale, è la presenza nel terzo verso della figura del Sommo Sacerdote (“High Priest” nell’originale inglese) che vi assume i tratti di “Jesus the Son of God” secondo quanto indicato, ad esempio, daHebrews 4,14 nella King James Bible. Questa stessa figura straordinaria impresse il suo formidabile sigillo nelle battute conclusive di un possente sermone anglicano (intitolato Conflitto, condizione della vittoria), pronunciato da Newman il 24 maggio 1838, cioè sette anni prima del suo definitivo ingresso nella Chiesa Cattolica (9 ottobre 1845): “Cristo in quaranta giorni addestra i suo Apostoli ad essere coraggiosi e pazienti invece che codardi. [Il Trono eterno di Dio] è la nostra casa; [su questa terra] non siamo che pellegrini, e Cristo ci chiama a casa. […] Dunque, ‘poiché abbiamo un grande sommo sacerdote, che ha attraversato i cieli, Gesù, Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della nostra fede’; poiché siamo ‘circondati da un così gran nugolo di testimoni, [deponiamo] tutto ciò che è di peso’; ‘affrettiamoci ad entrare in quel riposo’; ‘accostiamoci con piena fiducia al Trono della Grazia, per ricevere misericordia e trovare grazia ed essere aiutati al momento opportuno’” (Hebrews 4, 11, 14, 16; 12, 1 nella traduzione – lievemente modificata – della Bibbia di Gerusalemme).
Sono indizi testuali come questi – tutt’altro che microscopici, in realtà – che preparano il lettore all’accorata perorazione delle ultime due strofe di Natale senza Cristo: una pressante invocazione rivolta ai sudditi dell’impero britannico (secondo un’interpretazione storico-istituzionale del sostantivo Britons, forse non immune da un tenue filo di sottile ironia sociopolitica...) perché sappiano non perdere di vista le profonde radici cristiane della loro missione, riassunte da Newman nella gioia del Natale e nella florida bellezza della Pasqua.
Anche oggi come allora, se Natale è senza Cristo, ogni terra è straniera, ogni scenario è esposto a “conflitti e carestie”, ogni dimora è minacciata dalla miseria umana, come ci ha insegnato il Cardinale inglese beatificato da Benedetto XVI. Anche oggi come allora, al contrario, quando sono sorretti dalla venuta di Cristo nel Mistero del Natale e dalla “vista del Sommo Sacerdote”, i cristiani “sono mossi dalla certezza che Cristo è la pietra angolare di ogni costruzione umana” e il loro contributo diventa decisivo perché “l’intelligenza della fede diventa intelligenza della realtà, chiave di giudizio e di trasformazione”, come ha detto il Santo Padre nel discorso pronunciato il 21 maggio 2010 alla XXIV Assemblea Plenaria del Pontificio Consiglio per i Laici.
Enrico Reggiani
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