Nell’inverno del 1832 John Henry Newman (1801-1890), allora sacerdote anglicano e parroco nella chiesa universitaria di St Mary the Virgin presso Oriel College a Oxford, accettò l’invito dell’amico Richard Hurrell Froude (1803-1836) e di suo padre e li seguì in un luogo viaggio nel Mediterraneo: l’auspicio era che il clima mite e favorevole del mare nostrum tra Italia, Malta e Grecia consentisse al giovane Froude di superare la tubercolosi che lo affliggeva da tempo.
Purtroppo le loro speranze si rivelarono vane e anch’egli – come la Silvia leopardiana, “da chiuso morbo combattuto e vinto” – concluse la sua intensa ma gracile vita qualche anno dopo, mentre partecipava alle prime ed eroiche fasi del movimento trattariano di Oxford, per il quale seppe coniare una definizione tra le più efficaci e folgoranti: “noi siamo cattolici senza papismo e uomini nella Chiesa d’Inghilterra senza protestantesimo”.
Durante il viaggio, il piroscafo Hermes che trasportava i tre fu costretto a una sosta forzata a Malta nel mese di dicembre di quello stesso anno: c’era, infatti, la necessità che i naviganti si sottoponessero a un periodo di quarantena nel locale lazzaretto, come misura preventiva nei confronti di cittadini inglesi che avrebbero potuto trasferire altrove l’epidemia di colera che aveva impazzato in Inghilterra e che in terra d’Albione era però stata felicemente debellata.
Come ha scritto Sheridan Gilley in Newman and His Age (2003), “mentre la nave imbarcava carbone nell’isola, Newman passò un ‘miserevole giorno di Natale’ in quarantena, un ‘Natale senza Cristo’ – com’egli stesso lo definì nei suoi versi – privato dei sacramenti e ‘del conforto e dell’ordine di un’istituzione ecclesiastica riconosciuta’”. In questa sua triste esperienza fu solo parzialmente consolato dal mirabile panorama dei mulini a vento e dal festoso scampanio che proveniva dalle chiese dell’isola.
Natale senza Cristo – della quale questa breve nota offre di seguito una traduzione inedita – è, effettivamente, il titolo di una poesia che Newman concepì proprio nel giorno di Natale del 1832. Nel 1836, Christmas without Christ (così recita l’intestazione dell’originale inglese) fu poi inclusa (con il diverso ed emblematico titolo A Foreign Land) nella sezione Home del celebre volume antologico Lyra Apostolica, che si proponeva “di richiamare e di raccomandare al lettore alcune importanti verità cristiane che corrono il rischio di essere dimenticate ai nostri giorni” – emblematico riflesso, questo, del pensiero di Newman sul ruolo rilevante e strategico della letteratura che dovrebbe essere più adeguatamente indagato e compreso (nonché, forse, altrettanto adeguatamente riattualizzato oggidì)...
Natale senza Cristo
Come posso celebrare la mia festività del Natale
nel suo doveroso aspetto di festa,
orbato come sono della vista del Sommo Sacerdote
dal quale tutte le natalizie glorie discendono?
Odo campane melodiose tutt’intorno,
le torri benedette scorgo;
forestiero su un suolo straniero,
mi rivolgono un appello perché io digiuni.
Sudditi britannici, ora così valorosi e nobili,
come piangerete nel giorno
in cui Cristo Giudice passerà oltre,
e chiamerà altrove la sua Sposa, la Chiesa!
Allora il vostro Natale perderà la sua gioia,
la vostra Pasqua la sua florida bellezza;
ovunque, scene di conflitti e carestie;
nelle case, miserabili dimore!
Secondo il letterato e teologo anglicano Edwin Abbott Abbott (1838-1926), in Natale senza Cristo – come nelle altre poesie coeve di Newman – “spira il sentimento di un Cristianesimo che, se deve essere realtà, deve essere una religione austera, dura e militante” (The Anglican Career of Cardinal Newman; 1892). In tempi assai più recenti, invece, il gesuita Vincent Ferrer Blehl (1921-2001), che fu postulatore della causa di beatificazione di Newman, vi ha individuato un profondo “senso di solitudine” (Pilgrim Journey: John Henry Newman 1801-1845; 2001).
In realtà, come gli accade costantemente, anche in Natale senza Cristo, Newman non resta confinato al dato romanticamente personale – che è valorizzato dai rilievi senza dubbio autorevoli e legittimi di Abbott e Blehl – ma vi esprime soprattutto il senso della sua profonda preoccupazione per le complessive sorti del suo Paese, drammaticamente trasformato dalle iniziative legislative del “progressismo riformista” degli anni 1828-1833 – spesso agnostico, quando non esplicitamente antireligioso – che lo hanno reso irriconoscibile.
Ecco qualche indizio non macroscopico – e, dunque, solitamente trascurato più di altri – ma sostanziale in questa direzione interpretativa. Pare, innanzitutto, orientata alla rivitalizzazione della consapevolezza identitaria della sua comunità patria la scelta dell’espressione “to keep a feast” nel primo verso del testo inglese (nella traduzione qui proposta: “celebrare una festività”): non casualmente, infatti, tale espressione compare in un passo assai emblematico di Exodus 12,14 (secondo la versione dell’anglicana King James Bible del 1611) che anche la Bibbia di Gerusalemme legge efficacemente come segue: “questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore: di generazione in generazione, lo celebrerete come un rito perenne”.
Inoltre, altrettanto significativa per la sua forza nell’indicare la prospettiva risolutiva di una conversione comunitaria e nazionale, è la presenza nel terzo verso della figura del Sommo Sacerdote (“High Priest” nell’originale inglese) che vi assume i tratti di “Jesus the Son of God” secondo quanto indicato, ad esempio, daHebrews 4,14 nella King James Bible. Questa stessa figura straordinaria impresse il suo formidabile sigillo nelle battute conclusive di un possente sermone anglicano (intitolato Conflitto, condizione della vittoria), pronunciato da Newman il 24 maggio 1838, cioè sette anni prima del suo definitivo ingresso nella Chiesa Cattolica (9 ottobre 1845): “Cristo in quaranta giorni addestra i suo Apostoli ad essere coraggiosi e pazienti invece che codardi. [Il Trono eterno di Dio] è la nostra casa; [su questa terra] non siamo che pellegrini, e Cristo ci chiama a casa. […] Dunque, ‘poiché abbiamo un grande sommo sacerdote, che ha attraversato i cieli, Gesù, Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della nostra fede’; poiché siamo ‘circondati da un così gran nugolo di testimoni, [deponiamo] tutto ciò che è di peso’; ‘affrettiamoci ad entrare in quel riposo’; ‘accostiamoci con piena fiducia al Trono della Grazia, per ricevere misericordia e trovare grazia ed essere aiutati al momento opportuno’” (Hebrews 4, 11, 14, 16; 12, 1 nella traduzione – lievemente modificata – della Bibbia di Gerusalemme).
Sono indizi testuali come questi – tutt’altro che microscopici, in realtà – che preparano il lettore all’accorata perorazione delle ultime due strofe di Natale senza Cristo: una pressante invocazione rivolta ai sudditi dell’impero britannico (secondo un’interpretazione storico-istituzionale del sostantivo Britons, forse non immune da un tenue filo di sottile ironia sociopolitica...) perché sappiano non perdere di vista le profonde radici cristiane della loro missione, riassunte da Newman nella gioia del Natale e nella florida bellezza della Pasqua.
Anche oggi come allora, se Natale è senza Cristo, ogni terra è straniera, ogni scenario è esposto a “conflitti e carestie”, ogni dimora è minacciata dalla miseria umana, come ci ha insegnato il Cardinale inglese beatificato da Benedetto XVI. Anche oggi come allora, al contrario, quando sono sorretti dalla venuta di Cristo nel Mistero del Natale e dalla “vista del Sommo Sacerdote”, i cristiani “sono mossi dalla certezza che Cristo è la pietra angolare di ogni costruzione umana” e il loro contributo diventa decisivo perché “l’intelligenza della fede diventa intelligenza della realtà, chiave di giudizio e di trasformazione”, come ha detto il Santo Padre nel discorso pronunciato il 21 maggio 2010 alla XXIV Assemblea Plenaria del Pontificio Consiglio per i Laici.
Enrico Reggiani
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