Dalla prolusione del card. Bagnasco al Consiglio Permanente della CEI.
Accennavo un attimo fa al profilo interiore dell’Italia. Più precisamente, vorrei riferirmi a ciò che ancora oggi la fa essere qualcosa di più della somma di tanti singoli individui, ossia un popolo, e tale in forza non dello Stato, il quale viene dopo, ma di una comunità di destino che cammina con gli altri popoli, e tra gli altri ha una sua indole, un suo carattere, una sua vocazione, potremmo dire una sua anima. Quando, ad esempio, san Francesco e santa Caterina evocavano nei loro scritti l’Italia – molti secoli prima dell’unità raggiunta nel 1861, di cui si sta felicemente celebrando il 150° anniversario – si riferivano con ogni evidenza ad un’entità geografica che con quel nome era già identificabile, tant’è che sul territorio circolava, oltre alle parlate locali, anche una lingua comune, c’erano scambi e commerci, c’erano letterati, giuristi ed artisti che lavoravano per le diverse corti, e in qualche modo anzi le accomunavano. E potevano farlo in ragione di una predicazione cristiana che, toccando le varie città e contrade, aveva dato forma agli archetipi fondamentali di base. Intendo dire che il vincolo religioso è stato realmente l’incunabolo da cui è scaturita la prima coscienza di una identità italiana. E ciò non per rimarcare diritti o primati, ma per ricordare che nella storia dei popoli vi sono caratteristiche «che non possono essere negate, dimenticate o emarginate», e che quando è accaduto «si sono causati squilibri e dolorose fratture» (Benedetto XVI, Discorso al nuovo Ambasciatore d’Italia presso la Santa Sede, 17 dicembre 2010). Va da sé che la fede, nella misura in cui punta all’interiorità, non possa ridursi al fenomeno di «religione civile»; nello stesso tempo non si può negare che abbia una ricaduta nella vita comunitaria e pubblica. La religione è certo apprezzabile nella società civile per le sue attività caritative e assistenziali, dunque per la sua dimensione orizzontale. Essa però prospera nella misura dell’intensità della dimensione verticale. L’apertura al trascendente, che pure è indisponibile allo Stato, non può essergli tuttavia indifferente, in quanto struttura la persona, la mette in grado di interpretare ciò che la circonda, le dona quell’idealità e quella forza morale che la materialità non garantisce. Soprattutto, la rende capace di scegliere il bene anziché il male. Che per una società è la direzione primordiale e insostituibile. Vale anche nella nostra attualità, in cui non è difficile riscontrare – osserva il Papa – «una perversione di fondo del concetto di ethos» (Discorso per gli auguri alla Curia romana, 20 dicembre 2010). In una situazione in cui «esisterebbe soltanto un “meglio di” e un “peggio di”. […] tutto dipenderebbe dalle circostanze e dal fine inteso. A seconda degli scopi e delle circostanze, tutto potrebbe essere bene o anche male» (ib). In una situazione del genere, quando in certi momenti sembra che a vacillare siano i fondamenti stessi di una civiltà, si comprende forse meglio quale sia «il patrimonio di principi e di valori espressi da una religiosità autentica […]. Essa parla direttamente alla coscienza e alla ragione degli uomini e delle donne, rammenta l’imperativo della conversione morale, motiva a coltivare delle virtù e ad avvicinarsi l’un l’altro con amore, nel segno della fraternità, come membri della grande famiglia umana» (Messaggio cit. n. 9). È la religione ad aiutare la persona a distinguere tra l’assenza di costrizioni e il comportarsi secondo i doveri della coscienza. Non è un caso che la cultura moderna abbia indotto a sovrapporre i due concetti. Scriveva Newman: «Al giorno d’oggi, per una buona parte della gente, il diritto e la libertà di coscienza consistono proprio nello sbarazzarsi della coscienza, nell’ignorare il Legislatore e Giudice, nell’essere indipendenti da obblighi che non si vedono. […] La coscienza è una severa consigliera, ma in questo secolo è stata rimpiazzata da una sua contraffazione, di cui i diciotto secoli passati non avevano mai sentito parlare o dalla quale, se ne avessero sentito, non si sarebbero mai lasciati ingannare: è il diritto ad agire a proprio piacimento» (Lettera al Duca di Norfolk, Milano 1999). Ora, a parte il rilievo che il secolo in cui viveva Newman sembra essersi d’incanto prolungato fino ad oggi, com’è possibile non farsi aiutare dal nuovo Beato a identificare proprio nello stravolgimento del concetto di coscienza la causa di tanti equivoci? Forse non è vero che l’origine di troppe scelte sbagliate sta nello scambiare l’opzione di coscienza con la pretesa di essere padroni di agire come ci pare? Oppure com’è, sul momento, più conveniente e redditizio? Troppe volte, nella cultura come nella vita, si confonde il concetto di coscienza, ossia la capacità della persona di riconoscere la verità e decidere di incamminarsi in essa, con l’ultima perentorietà dell’istanza soggettiva (cfr anche Benedetto XVI, Discorso ai Dirigenti e Agenti della Questura di Roma, 21 gennaio 2011). In pratica, è lo stordimento attorno al falso concetto di autonomia ciò che incrina la cultura odierna, quella secondo cui la persona si pensa tanto più felice quanto si sente prossima a fare ciò che vuole. Peccato, tuttavia, che da lì in poi scoprirà che la felicità è altrove, e la si conquista in ben altro modo. Si può cogliere da qui il senso degliOrientamenti pastorali che l’Episcopato ha deciso, per questo decennio (2011-2020), in ordine all’emergenza educativa, «il cui punto cruciale sta nel superamento di quella falsa idea di autonomia che induce l’uomo a concepirsi come un “io” completo in se stesso, laddove invece egli diventa “io” nella relazione con il “tu” e il “noi”» (n. 9). Più di quanto non si pensi oggi è avvertito – seppur non ammesso – il bisogno di un’educazione coerente e duratura, che dia cioè gli ormeggi oggettivi, essendo in se stessa anche morale (cfr Benedetto XVI, Messaggio alla 62a Assemblea Generale della CEI, 4 novembre 2010).
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