Monday, January 24, 2011

Dalla prolusione del card. Bagnasco al Consiglio Permanente della CEI.

Accennavo un attimo fa al profilo interiore dell’Italia. Più precisamente, vorrei riferirmi a ciò che ancora oggi la fa essere qualcosa di più della somma di tanti singoli individui, ossia un popolo, e tale in forza non dello Stato, il quale viene dopo, ma di una comunità di destino che cammina con gli altri popoli, e tra gli altri ha una sua indole, un suo carattere, una sua vocazione, potremmo dire una sua anima. Quando, ad esempio, san Francesco e santa Caterina evocavano nei loro scritti l’Italia – molti secoli prima dell’unità raggiunta nel 1861, di cui si sta felicemente celebrando il 150° anniversario – si riferivano con ogni evidenza ad un’entità geografica che con quel nome era già identificabile, tant’è che sul territorio circolava, oltre alle parlate locali, anche una lingua comune, c’erano scambi e commerci, c’erano letterati, giuristi ed artisti che lavoravano per le diverse corti, e in qualche modo anzi le accomunavano. E potevano farlo in ragione di una predicazione cristiana che, toccando le varie città e contrade, aveva dato forma agli archetipi fondamentali di base. Intendo dire che il vincolo religioso è stato realmente l’incunabolo da cui è scaturita la prima coscienza di una identità italiana. E ciò non per rimarcare diritti o primati, ma per ricordare che nella storia dei popoli vi sono caratteristiche «che non possono essere negate, dimenticate o emarginate», e che quando è accaduto «si sono causati squilibri e dolorose fratture» (Benedetto XVI, Discorso al nuovo Ambasciatore d’Italia presso la Santa Sede, 17 dicembre 2010). Va da sé che la fede, nella misura in cui punta all’interiorità, non possa ridursi al fenomeno di «religione civile»; nello stesso tempo non si può negare che abbia una ricaduta nella vita comunitaria e pubblica. La religione è certo apprezzabile nella società civile per le sue attività caritative e assistenziali, dunque per la sua dimensione orizzontale. Essa però prospera nella misura dell’intensità della dimensione verticale. L’apertura al trascendente, che pure è indisponibile allo Stato, non può essergli tuttavia indifferente, in quanto struttura la persona, la mette in grado di interpretare ciò che la circonda, le dona quell’idealità e quella forza morale che la materialità non garantisce. Soprattutto, la rende capace di scegliere il bene anziché il male. Che per una società è la direzione primordiale e insostituibile. Vale anche nella nostra attualità, in cui non è difficile riscontrare – osserva il Papa – «una perversione di fondo del concetto di ethos» (Discorso per gli auguri alla Curia romana, 20 dicembre 2010). In una situazione in cui «esisterebbe soltanto un “meglio di” e un “peggio di”. […] tutto dipenderebbe dalle circostanze e dal fine inteso. A seconda degli scopi e delle circostanze, tutto potrebbe essere bene o anche male» (ib). In una situazione del genere, quando in certi momenti sembra che a vacillare siano i fondamenti stessi di una civiltà, si comprende forse meglio quale sia «il patrimonio di principi e di valori espressi da una religiosità autentica […]. Essa parla direttamente alla coscienza e alla ragione degli uomini e delle donne, rammenta l’imperativo della conversione morale, motiva a coltivare delle virtù e ad avvicinarsi l’un l’altro con amore, nel segno della fraternità, come membri della grande famiglia umana» (Messaggio cit. n. 9). È la religione ad aiutare la persona a distinguere tra l’assenza di costrizioni e il comportarsi secondo i doveri della coscienza. Non è un caso che la cultura moderna abbia indotto a sovrapporre i due concetti. Scriveva Newman: «Al giorno d’oggi, per una buona parte della gente, il diritto e la libertà di coscienza consistono proprio nello sbarazzarsi della coscienza, nell’ignorare il Legislatore e Giudice, nell’essere indipendenti da obblighi che non si vedono. […] La coscienza è una severa consigliera, ma in questo secolo è stata rimpiazzata da una sua contraffazione, di cui i diciotto secoli passati non avevano mai sentito parlare o dalla quale, se ne avessero sentito, non si sarebbero mai lasciati ingannare: è il diritto ad agire a proprio piacimento» (Lettera al Duca di Norfolk, Milano 1999). Ora, a parte il rilievo che il secolo in cui viveva Newman sembra essersi d’incanto prolungato fino ad oggi, com’è possibile non farsi aiutare dal nuovo Beato a identificare proprio nello stravolgimento del concetto di coscienza la causa di tanti equivoci? Forse non è vero che l’origine di troppe scelte sbagliate sta nello scambiare l’opzione di coscienza con la pretesa di essere padroni di agire come ci pare? Oppure com’è, sul momento, più conveniente e redditizio? Troppe volte, nella cultura come nella vita, si confonde il concetto di coscienza, ossia la capacità della persona di riconoscere la verità e decidere di incamminarsi in essa, con l’ultima perentorietà dell’istanza soggettiva (cfr anche Benedetto XVI, Discorso ai Dirigenti e Agenti della Questura di Roma, 21 gennaio 2011). In pratica, è lo stordimento attorno al falso concetto di autonomia ciò che incrina la cultura odierna, quella secondo cui la persona si pensa tanto più felice quanto si sente prossima a fare ciò che vuole. Peccato, tuttavia, che da lì in poi scoprirà che la felicità è altrove, e la si conquista in ben altro modo. Si può cogliere da qui il senso degliOrientamenti pastorali che l’Episcopato ha deciso, per questo decennio (2011-2020), in ordine all’emergenza educativa, «il cui punto cruciale sta nel superamento di quella falsa idea di autonomia che induce l’uomo a concepirsi come un “io” completo in se stesso, laddove invece egli diventa “io” nella relazione con il “tu” e il “noi”» (n. 9). Più di quanto non si pensi oggi è avvertito – seppur non ammesso – il bisogno di un’educazione coerente e duratura, che dia cioè gli ormeggi oggettivi, essendo in se stessa anche morale (cfr Benedetto XVI, Messaggio alla 62a Assemblea Generale della CEI, 4 novembre 2010).

Friday, January 21, 2011


Venerdi 21 Gennaio 2011
GIORNALISTI
Un servizio alla coscienza
Newman e la comunicazione

“Non dovete essere ‘produttori a qualunque costo del consenso’ di chi vi legge, vede, o ascolta. Non è la persuasione il vostro compito primo, ma la convinzione. E la convinzione è il risultato di una argomentazione razionale, semplice e cordiale, mite e luminosa”. È l’invito rivolto ai giornalisti dal card.Carlo Caffarra, arcivescovo di Bologna, nella “lectio magistralis” tenuta oggi (21 gennaio) sul tema “J. H. Newman: una proposta educativa per la comunicazione oggi”. L’appuntamento rientra nell’ambito della Festa regionale per la ricorrenza di san Francesco di Sales, patrono dei giornalisti (24 gennaio). Per il cardinale, Newman è “il pellegrino in cammino verso la verità che salva, oltre le apparenze e le ombre”; nei suoi scritti, infatti, “non parla mai del cammino verso la verità come di un’ascensione, una salita continua verso Dio dal grado inferiore al grado superiore” ma “configura il suo cammino verso la verità come un iter, un cammino, un pellegrinaggio faticoso”.

Compagno di viaggio. Il teologo inglese visse “tre momenti fondamentali” nel suo percorso verso la verità: la “prima conversione”, quando riconobbe che “le uniche realtà veramente consistenti sono Dio e l’anima, cioè il nostro essere un io spirituale”; la “seconda conversione”, che lo portò a ritenere che il “più grande pericolo” corso dalla fede cristiana è la “negazione del principio dogmatico”; infine, la “terza conversione” alla Chiesa cattolica, nel momento in cui ebbe “la certezza che essa era la vera Chiesa”. Ma “quale è stato il dinamismo interiore che ha mosso Newman in questa ricerca”, si domanda il cardinale, “la forza che dal di dentro lo spingeva a passare ‘ex umbris et imaginibus in veritatem’?”: “La sua coscienza. Primato della verità e primato della coscienza sono in Newman come il concavo e il convesso della stessa figura. L’avere contrapposto l’uno all’altro è stato il più esiziale degli errori moderni”. Nel pensiero del teologo, infatti, “la coscienza è la capacità di riconoscere la verità e le sue esigenze negli ambiti decisivi per il destino eterno dell’uomo: la morale e la religione”. Quindi, la coscienza è “l’originaria, permanente, imprescindibile rivelazione naturale che Dio fa di se stesso all’uomo” ed è “la sua prima – non in senso cronologico – Parola che Dio dice all’uomo”. In tal senso, sottolinea il card. Caffarra, “le conversioni di Newman sono il cammino della sua coscienza, cioè dell’obbedienza alla verità che gradualmente si mostrava alla sua persona” ovvero “il contrario di un cammino della propria soggettività che afferma se stessa in totale autonomia” perché “il concetto che Newman ha della coscienza è esattamente l’opposto del concetto elaborato dal soggettivismo moderno”. Il motto cardinalizio preso da san Francesco di Sales “cor ad cor loquitur”, ricorda l’arcivescovo, “denota in primo luogo un metodo di comunicazione” poiché “Newman è, nelle sue opere, un ‘compagno di viaggio’” che “si mette a fianco del suo lettore o uditore per condurlo con argomentazioni semplici e profonde alla scoperta della verità”. Per questo “la sua scrittura affascina non solo dal punto di vista della chiarezza espositiva, ma perché ti fa ‘sentire’ la vicinanza di un maestro che ti guida”.

Esserci dentro. Dall’insegnamento di Newman si apprende che “la forma per comunicare la verità che salva è quella di ‘esserci dentro’, ovvero di ‘presentarsi in carattere’”. Da qui il richiamo del card. Caffarra ai giornalisti: “Il vostro è un servizio alla coscienza perché giudichi con verità”. Si può, infatti, fare “un uso strumentale della propria ragione, quando si parla o si scrive”: “Uso strumentale significa che non intendo giudicare lo scopo che mi prefiggo – spiega l’arcivescovo –; mi preme solo trovare la modalità comunicativa per raggiungerlo. Un uso strumentale della ragione comporta non raramente interloquire non con la coscienza ma con le passioni e/o gli interessi dell’interlocutore”. Cambiare la prospettiva, adottare una visione orientata alla responsabilità e alla verità è invece più difficile e “certamente o molto probabilmente altri vi diranno o anche voi sarete tentati di pensare che questa posizione non la si può tenere nell’agorà della comunicazione”. Tuttavia, conclude il card. Caffarra, “si può scrivere davanti alla piazza; si può scrivere davanti al potente di turno” ma “Newman ci insegna a scrivere e parlare ‘davanti ad ogni coscienza’: ‘al cospetto di Dio’”.

Sunday, January 2, 2011

L'amore e il coraggio

Giovedi 30 Dicembre 2010
2010: L'ANNO DI NEWMAN
L'amore e il coraggio
Seguire la verità a qualsiasi costo
Angelo Bottone - docente filosofia (Università Dublino)

Benedetto XVI, ripercorrendo nel tradizionale discorso alla Curia Romana l’anno appena trascorso, è tornato a parlare del suo “indimenticabile viaggio nel Regno Unito”, viaggio inizialmente segnato di timori ma che si è poi rivelato fruttuoso e ricco di soddisfazioni. Il Santo Padre ha voluto ricordare in particolare l’evento che ha contraddistinto non solo il viaggio ma probabilmente l’intero anno: la beatificazione del cardinale John Henry Newman.
Due aspetti del neo-beato sono stati sottolineati nel discorso alla Curia, la riflessione sulla coscienza e le sue conversioni. L’intera vita di Newman è stata un cammino di conversione guidato dalla coscienza intesa nel duplice senso di capacità di riconoscere il bene e spinta a compierlo. “Coscienza è capacità di verità e obbedienza nei confronti della verità”, ha ricordato Benedetto XVI e, pertanto, impone a tutti “il dovere di incamminarsi verso la verità, di cercarla e di sottomettersi ad essa laddove la incontra”. Coscienza e conversione sono strettamente legate perché l’una indica la strada all’altra.
Nel Saggio sullo sviluppo della dottrina cristiana, scritto proprio nel periodo che ha preceduto il suo accoglimento nella Chiesa cattolica, Newman scriveva che vivere è cambiare ed essere perfetti è aver cambiato spesso. La verità ci è data a conoscere nella storia e questa conoscenza si compie necessariamente attraverso uno sviluppo. Ma come distinguere lo sviluppo autentico di una dottrina da una sua deviazione? Questa domanda aveva per il teologo inglese una valenza non solo teoretica ma esistenziale, infatti il grande amore per la verità lo stava portando a mettere in discussione la Chiesa anglicana nella quale era cresciuto e che si era impegnato a servire. La stessa domanda, d’altronde, se la pone chiunque si trovi a far conto con il tempo che passa e, esaminando la propria coscienza, si chiede se ci sono stati nella propria vita dei miglioramenti, una trasformazione positiva.
Come risposta Newman elaborò una sua teologia della storia, formulando dei criteri con i quali poter operare una distinzione tra sviluppi dottrinali autentici e distorsioni. Quello che è forse il suo maggiore contributo alla teologia gli provocò però incomprensioni e diffidenze. Infatti il difficile equilibrio, discusso in diverse opere, tra la necessità di cambiare e il pericolo di tradire le proprie origini, toccava il cuore stesso della fede cristiana, attirando il sospetto di quanti non erano abituati al suo argomentare. Come ha ricordato Benedetto XVI nel discorso alla Curia Romana, “nella teologia cattolica del suo tempo, la sua voce a stento poteva essere udita. Era troppo aliena rispetto alla forma dominante del pensiero teologico e anche della pietà. Nel gennaio del 1863 scrisse nel suo diario queste frasi sconvolgenti: ‘Come protestante, la mia religione mi sembrava misera, non però la mia vita. E ora, da cattolico, la mia vita è misera, non però la mia religione’. Non era ancora arrivata l’ora della sua efficacia. Nell’umiltà e nel buio dell’obbedienza, egli dovette aspettare fino a che il suo messaggio fosse utilizzato e compreso”.
Grazie alla beatificazione, il 2010 ha visto una riscoperta di Newman. Quale messaggio per il futuro ci ha consegnato? Egli è stato definito uno dei padri del Concilio Vaticano II e può ancora oggi illuminare la Chiesa postconciliare nell’affrontare il problema di come riconoscere e preservare l’essenziale senza trascurare il sempre necessario aggiornamento. Dalla vita del beato Newman possiamo trarre due insegnamenti fondamentali: l’amore per la verità e il coraggio di seguirla ovunque si mostri, anche a costo di rompere con la propria tradizione.
Newman però parla oggi non solo alla Chiesa o ai teologi ma anche ai singoli fedeli. L’inizio dell’anno è sempre tempo per nuovi buoni propositi. Quale migliore proposito possiamo darci se non quello della conversione del cuore, seguendo l’esempio del neo-beato? Ascoltiamolo, nelle parole di un sermone predicato nel periodo anglicano, dal titolo La testimonianza della coscienza: “Cos'è quindi quello che manca a noi, che professiamo la religione? Lo ripeto: ci manca la disponibilità ad ‘essere cambiati’. La disponibilità a sopportare (se posso usare questa parola) che Dio onnipotente ci cambi. Non ci piace abbandonare il nostro vecchio io e, in tutto o in parte, nonostante ci sia offerto gratuitamente, rimanendo attaccati al nostro modo di vedere e di agire. Ma quando qualcuno si rivolge a Dio per essere salvato, secondo me, l'essenza della vera conversione è consegnare se stessi, senza riserve, senza condizioni. Questa però è un'affermazione che molte persone che si volgono a Dio non riescono ad accettare. Desiderano essere salvate, ma a modo loro; desiderano arrendersi alle loro condizioni, portar via con sé i propri beni; il vero spirito di fede, al contrario, porta una persona a staccare lo sguardo da se stessa, per volgerlo verso Dio, la porta a non preoccuparsi dei propri desideri, delle proprie abitudini, della propria importanza o dignità, dei propri diritti o opinioni, fino a poter sinceramente dire: ‘Parla, o Signore, perché il tuo servo ti ascolta’ (1 Sam 3,9). Il profeta Isaia dice: ‘Eccomi, manda me!’ (Is 6,8). E ancora più pertinenti sono le parole di san Paolo quando fu fermato sulla via di Damasco, dalla visione miracolosa: ‘Signore, che cosa vuoi che io faccia?’ (At 22,10). Questa è la vera voce di chi si consegna totalmente: ‘Signore, che cosa vuoi che io faccia? Conducimi secondo la tua volontà; comunque sia, piacevole o dolorosa, io la farò’”.