Saturday, September 17, 2011
Dottore della coscienza
Dottore della coscienza
Oggi è un termine spesso malinteso e così l'avvocata della verità nel nostro cuore,
"originario vicario di Cristo", è diventata un pretesto per legittimare ogni arbitrio
di HERMANN GEISSLER
Un anno fa, il 19 settembre 2010, Benedetto XVI ha proclamato beato il famoso teologo inglese John Henry Newman. Durante l'incontro natalizio con la Curia Romana, svoltosi il 20 dicembre 2010, il Papa parlava ancora una volta di Newman, richiamando tra l'altro l'attualità della sua concezione di coscienza: "Nel pensiero moderno, la parola "coscienza" significa che in materia di morale e di religione, la dimensione soggettiva, l'individuo, costituisce l'ultima istanza della decisione. La concezione che Newman ha della coscienza è diametralmente opposta. Per lui "coscienza" significa la capacità di verità dell'uomo: la capacità di riconoscere proprio negli ambiti decisivi della sua esistenza - religione e morale - una verità, "la" verità. La coscienza, la capacità dell'uomo di riconoscere la verità, gli impone con ciò, al tempo stesso, il dovere di incamminarsi verso la verità, di cercarla e di sottomettersi ad essa laddove la incontra. Coscienza è capacità di verità, e obbedienza nei confronti della verità, che si mostra all'uomo che cerca col cuore aperto. Il cammino delle conversioni di Newman è un cammino della coscienza - un cammino non della soggettività che si afferma, ma, proprio al contrario, dell'obbedienza verso la verità che, a passo a passo, si apriva a lui".
Newman fece l'esperienza che coscienza e verità si appartengono, si sostengono e si illuminano a vicenda, che l'obbedienza alla coscienza conduce all'obbedienza alla verità. Ricorrendo spesso alla propria esperienza, il pensiero di Newman sulla coscienza è moderno e personalistico, caratterizzato da un'evidente impronta agostiniana. Per entrare nella questione, occorre all'inizio descrivere brevemente il significato della coscienza secondo Newman.
Con il tempo il termine coscienza ha assunto molteplici significati, che in parte sono anche contraddittori tra di loro. Newman - si legge in Sermon Notes - descrive il motivo centrale per questi contrasti con le seguenti parole: "Quanto alla coscienza, esistono due modalità per l'uomo nel seguirla. Nella prima la coscienza forma soltanto una specie di intuito verso ciò che è opportuno, una tendenza che ci raccomanda l'una o l'altra cosa. Nella seconda è l'eco della voce di Dio. Ora tutto dipende da questa differenza. La prima via non è quella della fede, la seconda lo è".
Nella celebre Lettera al Duca di Norfolk (1874) Newman approfondisce questa tematica. Scrive al riguardo: "Quando gli uomini si appellano ai diritti della coscienza, non intendono assolutamente i diritti del Creatore, né il dovere che, tanto nel pensiero come nell'azione, la creatura ha verso di Lui. Essi intendono il diritto di pensare, parlare, scrivere e agire secondo il proprio giudizio e il proprio umore senza darsi alcun pensiero di Dio (...) La coscienza ha diritti perché ha doveri; ma al giorno d'oggi, per una buona parte della gente, il diritto e la libertà di coscienza consistono proprio nello sbarazzarsi della coscienza, nell'ignorare il Legislatore e Giudice, nell'essere indipendenti da obblighi che non si vedono. Consiste nella libertà di abbracciare o meno una religione (...) La coscienza è una severa consigliera, ma in questo secolo è stata rimpiazzata da una contraffazione, di cui i diciotto secoli passati non avevano mai sentito parlare o dalla quale, se ne avessero sentito, non si sarebbero mai lasciati ingannare: è il diritto di agire a proprio piacimento".
Questa descrizione vale sostanzialmente anche per il nostro tempo: la coscienza è oggi spesso confusa con l'opinione personale, il sentimento soggettivo, l'arbitrio. Per molti non significa più la responsabilità della creatura nei confronti dell'Altro, ma la totale indipendenza, l'assoluta autonomia, la pura soggettività. Il santuario della coscienza è stato "desacralizzato". La responsabilità nei confronti dell'Altro è stata bandita dalla coscienza. Le conseguenze di quest'interpretazione secolarizzata della coscienza ci stanno dolorosamente davanti agli occhi. Emancipandosi dalla responsabilità nei confronti di Dio, infatti, l'uomo tende a segregarsi anche dal prossimo. Vive nel mondo del proprio Io, spesso senza prendersi cura dell'altro, senza interessarsi dell'altro, senza sentirsi corresponsabile per l'altro. Il puro individualismo, la ricerca illimitata del piacere e del potere e il gradimento senza limiti oscurano il mondo e fanno sempre più difficile la convivenza pacifica tra gli uomini.
Newman invece difende decisamente il significato trascendente della coscienza.
Per lui la coscienza non è una realtà puramente autonoma, ma essenzialmente teocentrica - un "santuario" nel quale l'Altro si rivolge personalmente ad ogni singola anima. Con i grandi dottori della Chiesa egli conferma che il Creatore ha impresso nella creatura ragionevole la sua legge. "Questa legge, in quanto è percepita dalla mente dei singoli uomini, si chiama "coscienza" e benché possa subire rifrazioni diverse passando attraverso l'intelligenza di ogni essere umano, non ne viene per questo intaccata al punto da perdere il suo carattere di legge divina, ma mantiene ancora, come tale, il diritto ad essere obbedita".
Newman stesso descrive il significato e la dignità della coscienza con parole meravigliose: "La norma e la misura del dovere non è l'utilità, né la convenienza, né la felicità del maggior numero di persone, né la ragion di Stato, né l'opportunità, né l'ordine o il pulchrum. La coscienza non è un egoismo lungimirante, né il desiderio di essere coerenti con se stessi, bensì la messaggera di Colui, il quale, sia nel mondo della natura, sia in quello della grazia, ci parla dietro un velo e ci ammaestra e ci governa per mezzo dei suoi rappresentanti. La coscienza è l'originario vicario di Cristo, profetica nelle sue parole, sovrana nella sua perentorietà, sacerdotale nelle sue benedizioni e nei suoi anatemi; e se mai potesse venir meno nella Chiesa l'eterno sacerdozio, nella coscienza rimarrebbe il principio sacerdotale ed essa ne avrebbe il dominio".
Nella coscienza l'uomo non sente solo la voce del proprio Io. Newman paragona la coscienza con un messaggero di Dio che ci parla come dietro un velo. Osa persino chiamare la coscienza l'originario vicario di Cristo e di ascriverle i tre "uffici" messianici del profeta, del re e del sacerdote. La coscienza è profeta in quanto ci predice se un'azione è buona o no; è re perché ci comanda con autorevolezza: fa questo, evita quest'altro; è sacerdote in quanto ci "benedice" dopo aver compiuto un'azione buona - ciò significa non solo l'esperienza gratificante della buona coscienza, ma anche la benedizione che il bene comporta sempre per l'uomo e per il mondo - oppure ci "condanna" dopo un'azione cattiva - ciò è espressione della coscienza cattiva e delle conseguenze negative del peccato sull'uomo e sulla società. Per noi è importante che, secondo Newman, la coscienza è essenzialmente collegata con la responsabilità nei confronti dell'Altro, in quanto costituisce un principio iscritto nella natura di ogni uomo che richiede obbedienza, deve essere formato e rinvia al di sopra di noi stessi - verso Dio, per il bene proprio e altrui. Nel suo capolavoro Grammatica dell'assenso (1870) cerca di elaborare una "prova" di Dio a partire dall'esperienza della coscienza. Analizzando l'esperienza della coscienza, distingue tra il "senso morale" (moral sense) e il "senso del dovere" (sense of duty). Con il senso morale intende il giudizio della ragione sulla bontà o malvagità di una determinata azione. Il senso del dovere invece è il comando autorevole di compiere l'azione riconosciuta come buona e di evitare quella riconosciuta come cattiva. Nelle sue riflessioni Newman parte soprattutto da questo secondo aspetto dell'esperienza della coscienza.
Essendo "imperativa e cogente, come nessun altro imperativo in tutta la nostra esperienza", la coscienza "esercita un profondo influsso sulle nostre affezioni ed emozioni". In modo semplificato potremmo riassumere il pensiero di Newman, da non confondere con un puro psicologismo, nel modo seguente: qualora seguiamo il comando della coscienza, siamo riempiti di felicità, di gioia e di pace. Se non obbediamo a questa voce interiore, sentiamo vergogna, spavento e paura. Newman interpreta quest'esperienza così: "Se, com'è il caso, ci sentiamo responsabili, ci vergogniamo, siamo spaventati, per aver trasgredito la voce della coscienza, ciò suppone che esiste Qualcuno verso il quale siamo responsabili, davanti al quale proviamo vergogna, le cui pretese temiamo. Se, nel fare il male, proviamo lo stesso dolente e straziato dispiacere che ci sopraffa quando offendiamo nostra madre; se, nel fare il bene, godiamo della stessa solare serenità dello spirito, della stessa gioia lenitiva e soddisfacente che deriva da una lode ricevuta dal padre, certamente abbiamo dentro di noi l'immagine di una persona alla quale guardano il nostro amore e la nostra venerazione, nel cui sorriso troviamo la nostra felicità, per la quale sentiamo tenerezza, alla quale rivolgiamo le nostre invocazioni, dalla cui ira siamo preoccupati e logorati (...) così i fenomeni della coscienza, intesa come imperativo, servono ad imprimere nell'immaginazione l'immagine di un Reggitore Supremo, un Giudice, santo, giusto, potente, onniveggente, punitivo".
Confrontandosi con le tradizionali "prove di Dio", Newman afferma di preferire la via a Dio a partire dalla coscienza. Taluni vedono in questa posizione un limite nel pensiero di Newman, rimproverandogli di aver esagerato la dimensione della interiorità dell'uomo. In realtà Newman non nega le tradizionali "prove di Dio", ma è del parere che queste conducono l'uomo soltanto ad un'immagine astratta di Dio: ad un primo Movente, un Ordinatore di tutte le cose, un Creatore e Guida del mondo. La sua via della coscienza invece conduce l'uomo a un Dio che sta in una relazione personale con ciascuno, che gli parla, gli mostra i suoi difetti, lo chiama alla conversione, lo guida alla conoscenza della verità, lo sprona a fare il bene, si presenta come suo supremo Signore e Giudice. Gli atteggiamenti morali fondamentali, che scaturiscono dall'obbedienza alla coscienza, formano secondo Newman "l'organum investigandi datoci per guadagnare la verità religiosa: questo condurrebbe la mente, con una successione infallibile, dal rifiuto dell'ateismo al teismo e dal teismo al cristianesimo, e dal cristianesimo alla religione evangelica e da questa al cattolicesimo". Nell'Apologia Newman afferma in modo audace: "Arrivai alla conclusione che, in una vera filosofia, non vi era via di mezzo tra l'ateismo e il cattolicesimo, e che uno spirito pienamente coerente, nelle circostanze in cui si trova quaggiù, deve abbracciare o l'uno o l'altro. E sono tuttora convinto di questo: io sono cattolico in virtù della mia fede in Dio; e se mi si chiede perché credo in Dio, rispondo: perché credo in me stesso. Trovo, infatti, impossibile credere nella mia propria esistenza (e di questo fatto sono perfettamente sicuro) senza credere anche nell'esistenza di Colui che vive nella mia coscienza come un Essere Personale, che tutto vede, tutto giudica".
Le affermazioni più rilevanti sul tema coscienza e Chiesa si trovano nella già citata Lettera al Duca di Norfolk. In questo saggio Newman respinge l'accusa che dopo la proclamazione del dogma sull'infallibilità del Papa i cattolici non potrebbero più servire lo Stato come buoni cittadini, in quanto sarebbero obbligati a consegnare la propria coscienza al Papa. Per rispondere a simili idee diffuse allora in Inghilterra, Newman chiarisce in modo magistrale il rapporto tra l'autorità della coscienza e l'autorità del Papa.
L'autorità del Papa è fondata nella rivelazione, espressione della bontà divina nei confronti dell'uomo. Dio ha consegnato la sua rivelazione alla Chiesa e in forza del suo Spirito si fa garante che essa venga preservata, interpretata e trasmessa in modo infallibile nella Chiesa e per mezzo della Chiesa. Se una persona accoglie nella fede questa missione della Chiesa, capisce nella sua propria coscienza che deve obbedire alla Chiesa e al Papa. Newman, di conseguenza, può scrivere: "Se il vicario di Cristo parlasse contro la coscienza, nell'autentico significato del termine, commetterebbe un suicidio; toglierebbe la base su cui poggiano i suoi piedi. Sua autentica missione è proclamare la legge morale; proteggere e rafforzare quella "Luce che illumina ogni uomo che viene in questo mondo". Sulla legge e sulla santità della coscienza sono fondati tanto la sua autorità in teoria, quanto il suo potere in pratica (...) La sua raison d'être è quella di essere il campione della legge morale e della coscienza. La realtà della sua missione è la risposta al lamento di quanti sentono l'insufficienza del lume naturale; e l'insufficienza di questo lume è la giustificazione della sua missione" (Lettera al Duca di Norfolk). Non obbediamo al Papa perché qualcuno ci costringe a farlo, ma perché siamo personalmente convinti nella fede che il Signore - per mezzo di lui e dei vescovi in comunione con lui - guida la Chiesa preservandola nella verità.
La coscienza formata dalla fede conduce l'uomo all'obbedienza libera e matura nei confronti del Papa. D'altra parte, la Chiesa, il Papa e i vescovi illuminano la coscienza bisognosa di un sostegno chiaro e preciso. Newman afferma: "il sentimento del giusto e dell'ingiusto, che nella religione è il primo elemento, è così delicato; così irregolare; così facile da confondersi, da essere oscurato, pervertito; così sottile nei suoi metodi di ragionamento; così malleabile dall'educazione; così influenzato dall'orgoglio e dalle passioni; così instabile nel suo corso che, nella lotta per l'esistenza, tra i molteplici esercizi e trionfi della mente umana, questo sentimento è al tempo stesso il più grande e il più oscuro dei maestri; e la Chiesa, il Papa, la gerarchia costituiscono, nella Provvidenza divina, la risposta a un urgente bisogno".
Al riguardo, la Chiesa è un grande aiuto non solo per la coscienza del singolo credente. Offre anche un servizio insostituibile per la società come avvocata dei diritti e delle libertà inalienabili degli uomini. Tali diritti e libertà, radicati nella dignità della persona umana, formano la base degli Stati costituzionali moderni, ma come tali non possono essere sottoposti alle regole democratiche maggioritarie. Difendendo la dignità della persona umana, creata da Dio e redenta da Cristo, e ribadendo i suoi fondamentali diritti e doveri, la Chiesa svolge quindi una missione di straordinaria importanza per le società moderne.
Secondo Newman non ci può essere uno scontro diretto tra la coscienza e la dottrina della Chiesa. La coscienza, infatti, non ha competenza nelle questioni della dottrina rivelata, custodita in modo infallibile dalla Chiesa. Newman sa che "nelle cose dottrinali "la maestà della coscienza" non è il tribunale adeguato per ciò che vorrei tenere come affermazione valida sulla materia". Se una persona accoglie una dottrina rivelata e insegnata dalla Chiesa non è prioritariamente una questione di coscienza ma di fede. Un credente quindi che ritiene di dover respingere una dottrina di fede, non può richiamarsi alla sua coscienza. O meglio, la sua coscienza non è più illuminata dalla fede. La coscienza del fedele deve sempre essere una coscienza ecclesiale formata dalla fede.
Ma l'autorità della Chiesa e del Papa ha dei limiti. Non ha niente in comune con l'arbitrio oppure con i modelli di dominio di questo mondo, essendo connessa inseparabilmente con il senso di fede infallibile di tutto il popolo di Dio e con la missione specifica dei teologi. L'autorità della Chiesa riguarda solo l'ambito della verità rivelata e necessaria per la salvezza. Se il Papa prende decisioni nel campo della disciplina o dell'amministrazione, non si tratta ovviamente di interventi infallibili.
Ma anche qui Newman offre dei criteri chiari e precisi per il credente: "Prima facie è suo stretto dovere, anche per un senso di lealtà, credere che il Papa abbia ragione e agire perciò in conformità. Deve quindi vincere quella meschina, ingenerosa, egoistica e volgare propensione della propria natura, la quale, non appena sente parlare di comando, si pone in contrasto col superiore che l'ha impartito; si chiede se quest'ultimo non sia andato oltre i propri diritti, compiacendosi di affrontare il tutto con scetticismo nei giudizi e nell'azione. Non deve nutrire nessun caparbio proposito di esercitare il diritto di pensare, dire e fare quello che gli pare e piace, senza preoccuparsi minimamente del vero e del falso, del giusto e dell'ingiusto, dell'obbligo stesso dell'obbedienza, qualora possibile, e di quell'amore che ci spinge a parlare come parla il proprio superiore e a stargli sempre a fianco in ogni caso. Se questa fondamentale regola fosse osservata, i conflitti tra l'autorità del Pontefice e l'autorità della coscienza sarebbero estremamente rari. D'altra parte essendo, nei casi straordinari, la coscienza di ciascuno libero di agire a proprio talento, abbiamo la garanzia e la sicurezza (...) che nessun Papa potrà mai creare per i suoi scopi personali (...) una falsa coscienza" (Lettera al Duca di Norfolk).
Newman conclude le sue affermazioni sulla coscienza nella Lettera al Duca di Norfolk con il seguente famoso brindisi: "Se fossi obbligato a introdurre la religione nei brindisi dopo un pranzo (il che in verità non mi sembra proprio la cosa migliore), brinderò, se volete, al Papa; tuttavia prima alla Coscienza, poi al Papa". Questa battuta, che esprime anche il fine humour di Newman, significa innanzitutto che la nostra obbedienza al Papa non è un'obbedienza cieca, ma sostenuta dalla coscienza formata dalla razionalità della fede. Chi nella fede ha accolto la missione del Papa, lo ascolterà per convinzione personale di coscienza. In tal senso viene davvero prima la coscienza, quella illuminata dalla fede, e poi il Papa.
Newman mantenne decisamente la correlazione tra coscienza e Chiesa. Non si può richiamarsi a lui o al suo summenzionato brindisi per contrapporre l'autorità della coscienza e quella del Papa. Ambedue le autorità, quella soggettiva e quella oggettiva, rimangono dipendenti l'una dall'altra. Oggi la parola coscienza è un termine equivoco e spesso malinteso. Con il suo cammino di vita e la sua solida dottrina il beato John Henry Newman può aiutarci a riscoprire il vero significato della coscienza come eco della voce di Dio, rigettando nel contempo interpretazioni insufficienti ed errate. Newman ha sempre affermato pienamente la dignità della coscienza soggettiva, senza deviare mai dalla verità oggettiva. Egli non direbbe: coscienza sì - Dio o fede o Chiesa no, ma piuttosto: coscienza sì - e proprio per questo Dio e fede e Chiesa sì! La coscienza è l'avvocata della verità nel nostro cuore, è "l'originario vicario di Cristo".
(©L'Osservatore Romano 18 settembre 2011)
Friday, July 1, 2011
Movimento in tre tempi
Movimento in tre tempi
Anticipiamo alcuni stralci di un articolo che sarà pubblicato sul prossimo numero del bimestrale "Vita e Pensiero".
di JULIA KRISTEVA Nell'Apologia pro vita sua (1864) John Henry Newman ricorda il "grande cambiamento" che "si produsse nei suoi pensieri" all'età di quindici anni. Da allora, più che un'impronta o un'impressione, il dogma cristiano divenne per lui una "certezza assoluta": "Ancora oggi (quarantanove anni dopo) ne sono più sicuro che di avere piedi e mani". Intensa concentrazione, isolamento totale dalla "realtà dei fenomeni materiali" e null'altro che "due esseri" "la cui evidenza" è tanto "luminosa" quanto "assoluta": Myself and my Creator. La scena è ambientata nel 1816. La banca del padre fallisce, l'anno successivo il quindicenne non può raggiungere la famiglia per le vacanze estive e rimane in collegio a Ealing: separato dai suoi, ma circondato dall'attenta comprensione del reverendo Walter Mayers, protestante evangelico. L'adolescente prova dunque la realtà assoluta (la "certezza") di quella che chiamerò la co-presenza tra l'Io e il suo Creatore. Si tratta di una "sensazione"? Il termine è troppo soggettivo, "derisorio" dice Newman, a mocquery, nei confronti dell'inevitabile "impronta" imposta all'Io da una realtà fuori-dell'Io. Si tratta forse di una realtà impersonale? Le parole sono a tal punto impotenti a dar nome all'iscrizione di tale evidenza assoluta, che il teologo ricorrerà ai paragoni e alle metafore: ispirate prima al corpo ("più sicuro che di avere piedi e mani") e infine al fatto del padre antropologico. Come l'amore filiale non esiste senza il fatto del padre umano, la pietà non esiste se l'Essere assoluto non è un fact.
Newman preferisce dettagliare logicamente una serie di atti cognitivi che chiama atti di coscienza e che costellano il processo eterogeneo del credere: "Ombre e immagini verso la verità" (sarà il motto inciso sul suo memoriale a Edgbasten) e una certezza razionale che ne scaturisce infine: "So che so che lo so...". L'affermazione termina con i puntini di sospensione, come per evocare un processo di sapere infinito (come il pi greco di Leibniz).
Dall'intuizione anteriore alla razionalità fino alla razionalità enunciata dal Credo: Newman conserva la luminosità segreta ("soprannaturale", dice) della sua fede, che descriverà anche come un inward sense (senso interiore), o ancora come cor (il cuore di sant'Agostino): Cor ad cor loquitur (sarà il suo motto di cardinale). Il termine "affetto", che san Bernardo di Chiaravalle aveva ripreso dalla Scolastica per farne un concetto chiave della sua lettura del Cantico dei Cantici, non sembra venire alla penna di Newman. Però s'impone, se si vuole afferrare quella zona ampia e fragile che Newman chiama la "coscienza" dell'esperienza, o (più tardi) "assenso alle immagini e alle cose" (da distinguere dall'"assenso ai concetti"). Una coscienza che non ha ancora il rigore di un atto cognitivo razionale, ma che evoca la "sfera pre-predicativa" della fenomenologia husserliana, o il senso semiotico (anteriore e sottostante alla sintassi che garantisce il significato simbolico) nella mia concezione della soggettività come un processo di "significato".
L'eterogeneità di questi atti psichici, costituendo il legame chiamato Credo tra me e il Creatore, richiama subito regimi di parola che non riducono "le ombre e le immagini" ai saperi dell'"io so" concettuale. La nostra cultura li definisce estetici: le arti, la musica, la pittura e, per Newman, la poesia, in presa diretta su quei "germi" di pensiero suggeriti dalle metafore delle "ombre" e delle "immagini".
A partire da quella certezza dell'unione tra l'Io e il Padre/Creatore, il Credo secondo Newman cesserà di essere un'impronta, per svilupparsi come un legame intersoggettivo e amoroso. Sarà proprio questa rivelazione amorosa a condurlo dai padri bizantini e dal protestantesimo alla Chiesa cattolica. Seguiamo il movimento in tre tempi della soggettivazione amorosa.
La concezione della fede come impronta (éikon) del Creatore nel credente, della sua icona e della sua economia è stata sviluppata nel IX secolo, in particolare dal patriarca Niceforo, nel corso del dibattito bizantino sull'autorizzazione delle raffigurazioni di Dio. Insistendo sulla deposizione/ricezione/iscrizione del patto con il Creatore, quell'economia rischiava di introvertire il credente in ciò che Newman chiama unworldnesness: ritiro dal mondo, addirittura fonte di "disperazione" nel cristianesimo evangelico.
Al contrario, grazie all'analogia subito stabilita da Newman tra il Creatore e il fatto della paternità umana vivente, per lui il Credo si chiarisce in tutt'altro modo. L'impronta diventa una grazia che non è solo attribuita per analogia, ma è impiantata da e per l'amore del Padre. Ben più che una ricezione o un'applicazione della Legge biblica. E non più solo una partecipazione al Bene generale dell'Essere Bene (il Bonum neutro, alla maniera filosofica o tomista). La fede sarà la "certezza" di una co-presenza con il Bonum singolare (dirà Maurice Blondel). Intendiamo: una personalizzazione duale del legame. Io attraverso Lui perché Lui per Me. È un'iniziativa del credente, nel senso che lui non si accontenta di imitare, ma partecipa. Il dono amoroso sarà inteso come gratificazione e al tempo stesso come prova: un conflitto permanente, nello scollamento tra chiamata e risposta. E tuttavia un'identificazione totale riunisce il Figlio con il Padre in un solo Spirito.
Newman non esplicita il carattere affettivo di questo movimento: si limita a tracciare la dinamica eterogenea e l'unità logica del processo. Tuttavia il suo modo d'intendere la co-presenza Io/Creatore fa del credente il Tempio dello Spirito. Abolisce la separazione tra il giusto e l'eletto e prende in considerazione un nuovo regime della soggettività nella fede: quello del rinnovamento ("la crescita è l'unica prova della vita", Newman ama citare Thomas Scott), implicando che la verità della Fede non è incantesimo, ma libertà come conquista e dramma: perché "il nostro cuore è senza riposo".
La decisione di credere include i "poveri e gli illetterati": gli stessi che "sentono" (ancora questa certezza della percezione pre-razionale). L'unificazione dell'Io con il suo Creatore si "realizza" nell'universalità più ampia, quella dell'umanesimo cristiano che associa il genere umano a quel per modum unius vissuto come legame d'amore.
Sarà questo il senso ultimo della santità che si realizza, secondo Newman, laddove esiste la "certezza indefettibile" (Grammatica dell'assenso) della co-presenza tra l'Io e il mio Creatore. "La santità, ecco il grande scopo. Dev'esserci una lotta e una prova" (citato da Travor, The Pillars and the Cloud, p. 55). Fondandosi sulla certezza sensibile - passando attraverso la coscienza che tale co-presenza è una tensione - e inglobando la certezza che tutti gli uomini partecipano di tale evidenza, lo sappiano o meno.
Benché Newman non abbia rivendicato il termine "mistico", l'assemblaggio tra assenso e immaginazione, da una parte, e grammatica dell'inferenza-giustificazione, dall'altra, arriva a integrare l'esperienza mistica nel consolidamento di un dogma cattolico che gli sembra dover essere delucidato e protetto. Tale cammino, che porta il protestante Newman al cattolicesimo e che non è sfuggito a un Henri de Lubac, lo conduce a un'altra certezza, che non ha formulato esplicitamente ma che riassumerei così: l'essenza dell'ethos cristiano è mistica.
Alcuni hanno fatto della mistica una chiave per aprire le porte della fede a nuovi mondi: Meister Eckhart prepara il vocabolario della filosofia europea, mentre Teresa d'Avila avvia la transizione barocca al secolo dei Lumi. Newman, da parte sua, protegge il cattolicesimo tanto dal moralismo protestante quanto dal criticismo razionalista e rinsalda i fondamentali del cattolicesimo attraverso una paziente descrizione del legame Padre/Figlio che sta dietro al Verbo, dimostrando che quell'esperienza - che solo surrettiziamente chiama "amorosa" (nella Grammatica dell'assenso, ad esempio) - è il fondamento ultimo del senso etico. Nella mistica riconosce il fermento necessario a rifondare il dogma, rendendolo più complesso e dinamico. Nell'universo indoeuropeo, la parola latina credo risale al sanscrito sraddha che denota un atto di fiducia in un dio, implicando restituzione sotto forma di favore divino concesso al fedele. Da tale radice deriva, laicizzato, il credito finanziario: io deposito un bene aspettandomi una ricompensa.
Il mio bisogno di credere, che mi offre le condizioni ottimali per sviluppare il linguaggio, sarà il fondamento sul quale potrà fondarsi un'altra capacità, corrosiva e liberatrice: il desiderio di sapere. Se e solo se sono portato/a da quest'"investimento", da questa fede che mi fa sentire un terzo amante/amato a parlargli, solo allora posso finalmente esplodere in domande. Chi non conosce l'ansia giubilatoria del bambino che fa domande? E non smette di riportarci a quell'inconsistenza dei nomi e degli esseri, dell'Essere, che non lo terrorizza più ma lo fa ridere, perché crede che è possibile nominare, far nominare. "So che so che so...". A quest'archeologia del "bisogno di credere" dal lato del padre l'ascolto analitico aggiunge oggi i legami precoci madre-figlio, a cominciare da quel "sentimento oceanico" che Romain Rolland aveva indicato a Freud come una componente essenziale del sentimento religioso. Certezza estatica di un corpo senza frontiere e senza organi (le quattro acque di Teresa d'Avila) e minaccia catastrofica di perdita di sé, anzi di dissoluzione biologica (il fuoco di Giovanni della Croce): la clinica esplora quelle esperienze limite quando sfociano nelle "nuove malattie dell'anima" (tossicomania, psicosomatosi, passaggio all'atto suicida, vandalismo ecc.); l'arte moderna vi cerca linguaggi che sfidino la figurabilità e la rappresentazione; e le teorie del significato si riagganciano alle scoperte di Platone nel Timeo, che abbozza uno "spazio prima dello spazio", un ricettacolo detto chora, che sarebbe nutritivo e materno, anteriore al padre in tutti i sensi, e che tenterebbe un recupero ontologico dell'atomismo di Democrito. Io e la Mia Genitrice/Creatrice: come doppio dell'investimento paterno? La stessa psicoanalisi fatica ancora ad accostarsi a questo continente.
La psicoanalisi non ha lo scopo di trovarci il miglior partner amoroso né la situazione professionale più adatta. La psicoanalisi ci insegna che la capacità di avere senso è ancorata nel destino non solo della funzione paterna, ma in senso più ampio della funzione genitoriale: padre e madre. Infatti siamo in vita se, e solo se, possiamo investire tale funzione, nel senso etimologico di "investire": unirci affettivamente con la sua alternità amante, per poi interrogarla nel desiderio e attraverso l'innovazione.
Freud, ebreo ateo, l'uomo meno religioso del suo secolo, giunge a questa conclusione stravagante: la mistica e la psicoanalisi mirano a un punto comune. Com'è possibile? L'Io dell'analizzante, liberato dalla tutela del Super-io, amplia le sue percezioni e si consolida in modo da appropriarsi dei frammenti dell'Es. "Là dove Es era, l'Io deve accadere". Sarebbe questo il lavoro della civiltà: nel lungo periodo, forse impossibile, come il prosciugamento dello Zuidersee. Siamo nel 1932, Freud scrive le sue Nuove conferenze sulla psicoanalisi. Presto calerà la notte sull'Europa e sul mondo.
Ma Freud non abbandona la sua archeologia del "punto di attacco simile" tra psicoanalisi e mistica. Poco prima della morte, il 22 agosto 1938, l'ultimo messaggio della sua mano traccia però una linea di demarcazione in questa similitudine inquietante: "Misticismo: autopercezione oscura del regno, al di là dell'Io, dell'Es". Intendiamo: immersione e perdita dell'Io nell'autopercezione dell'Es (mistica), ma riorganizzazione dell'Io attraverso un'interminabile delucidazione dell'Es (psicoanalisi). Senza aderire all'esperienza mistica, ma anche senza ignorarla, l'ascolto analitico dà senso al suo godimento: costruendo/decostruendo continuamente il legame edipico, e fino all'Identificazione primaria con il Padre della Preistoria individuale.
È proprio questa capacità di significare, questo significato ancorato nel destino della funzione paterna genitoriale fino agli affetti e le pulsioni, che la psicoanalisi freudiana ci lascia in eredità. Collegando il più profondo intimo alle mutazioni storiche attraverso l'espediente dell'evoluzione delle strutture familiari e della regolazione della riproduzione, il significato onto e filogenetico fa entrare la storia nell'esperienza del lettino. Freud la chiama "un'alta mira negli umani. Lungi dal tradire una qualche regressione idealista, questa teorizzazione designa le logiche di una immanentizzazione della trascendenza, che il fondatore della psicoanalisi ha constatato attraverso e nel transfert, nell'ambito della "cura della parola" che ha inventato.
I Lumi hanno desacralizzato le religioni denunciandone gli abusi, senza peraltro decostruire il bisogno di credere. Lo stesso Diderot, dopo aver immaginato la sua Monaca che, finalmente liberata dalla mortificazione e dagli abusi sessuali, si trova a essere libera attrice nel mondo profano, quel Diderot ateo impenitente, non riusciva a finire il suo romanzo e piangeva. Freud eredita tale ricomposizione, intrapresa da Diderot, della soggettività parlante che pianta in asso l'Ego Cogito e si rivela posseduta dal desiderio amoroso del senso dell'Altro.
Con la teoria dell'inconscio, la modernità cerca di essere più lucida di Diderot. Noi non rinunciamo al bisogno di credere che non ha ancora un "oggetto" in senso proprio, ma si limita a investire di senso una Chora (prima del significato, diceva Platone nel Timeo) o a presentire una Cosa, Res divina (dicevano i dottori): polo calamitato degli affetti, non ancora dissociato da un non ancora "io". Non rinunciamo, dunque, al bisogno di credere. Ma quando l'oggetto di tale bisogno si fissa in Oggetto Assoluto di desiderio, in Dio Padre consacrato dal credo, gli rivolgiamo i nostri desideri di sapere.
Vi sto forse dicendo che la psicoanalisi è figlia dell'ontoteologia, il suo ultimo avatar, come l'accusano certi detrattori? O è la nostra comune appartenenza alla famiglia patrilineare e patriarcale a farci scoprire le (quasi) identiche logiche nei soggetti scaturiti da questo stesso quadro antropologico, per trarne valori universali? Poiché la "funzione paterna", e con essa l'equilibrio tra il "bisogno di credere" e il "desiderio di sapere" che sottintende, restano a fondamento della capacità di pensare dell'Homo sapiens, il loro smantellamento o la loro ricostituzione comporteranno cambiamenti del regime di pensare, così come dell'etica sociale. In tale evoluzione la psicoanalisi, ben più che accompagnare accortamente, proteggerà il percorso dal rischio di sbandate.
(©L'Osservatore Romano 2 luglio 2011)
Wednesday, June 1, 2011
Pubblichiamo alcuni stralci di una delle relazioni tenute alla Pontificia Università Gregoriana nel simposio internazionale "Il primato di Dio nella vita e negli scritti del beato John Henry Newman" organizzato dall'International Centre of Newman Friends.
di KEIT BEAUMONT
Oratorio di Francia
Per esaminare l'idea di preghiera in Newman come forma di esercizio spirituale o formazione spirituale, occorre inserire il tema nel più ampio contesto di tutto il suo insegnamento. Molti testi trattano aspetti del suo pensiero teologico, ma Newman non è soltanto un teologo nel senso moderno del termine. È anche un teologo nel senso attribuito alla parola durante i primi secoli cristiani, quando il teologo era una persona che cercava Dio attraverso una meditazione orante delle Scritture. Non solo un pensatore, dunque, ma un cercatore di Dio. V'è una famosa definizione di Evagrio Pontico, monaco del IV secolo: "Se preghi veramente, allora sei un teologo e se sei un teologo, allora sarai un uomo di preghiera". Non dico che Newman pensi esplicitamente in questi termini, ma è evidente, quando esaminiamo i suoi scritti e la sua predicazione, che pone la teologia, nel senso moderno, al servizio della spiritualità. Ci invita sempre a passare dal mero pensare a Dio all'attivo cercare Dio. Quindi non è solo un teologo, ma anche una guida spirituale straordinariamente preziosa.
L'espressione "esercizi spirituali" risale ai primi tempi del cristianesimo. Il latino exercitia spiritualia è la traduzione del termine greco askèsis, che i primi cristiani utilizzarono ispirandosi agli esempi del soldato e dell'atleta, che si sottopongono a un allenamento rigoroso per prepararsi a combattere e a vincere. L'espressione è entrata rapidamente in uso, in particolare nei circoli monastici, per indicare sia l'autodisciplina rigorosa a cui il monaco deve sottoporsi sia, in maniera più specifica, la pratica della preghiera contemplativa. Data la sua conoscenza della Chiesa primitiva e degli scritti dei Padri della Chiesa, è impossibile che Newman ignorasse queste idee.
Newman pone al centro della sua predicazione la dottrina che i teologi definiscono, per usare la terminologia di san Giovanni, il dimorare dello Spirito Santo. Questa stessa dottrina è al centro della sua idea di salvezza in una delle sue opere teologiche più importanti, Lezioni sulla Dottrina della giustificazione. Illustra con costanza anche l'insegnamento di Paolo secondo cui dovremmo sforzarci di diventare il tempio dello Spirito Santo. In un altro dei suoi più bei sermoni, La rettitudine non nostra, ma in noi (1840), dichiara che Cristo salva ciascuno individualmente, qui e ora, con la forza trasformatrice della sua presenza in noi. In breve, Newman pone la teologia al servizio della spiritualità.
Nessuno di questi aspetti è però automatico. Richiede un processo costante di auto-trasformazione volta a renderci sempre più attenti a questa presenza di Dio in noi. A questo fine, Newman sottolinea l'importanza della consapevolezza di sé e dell'abnegazione come strumenti di allenamento della volontà. Evidenzia l'importanza dell'amore per la famiglia e per gli amici nonché di quello fra coniugi come strumenti di allenamento nell'amore di Dio, l'importanza del tempo nella crescita spirituale, l'importanza dell'umiltà, di cui è esempio supremo il suo santo patrono Filippo Neri. Riconosce che la grazia non distrugge la natura, ma, trasformandola dall'interno, la porta alla perfezione. Sottolinea l'importantissimo tema della coscienza, non solo come agente morale, ma anche come consapevolezza della presenza misteriosa di Dio in noi, nel profondo della nostra coscienza.
Essere attenti alla "legge della coscienza" è quindi molto diverso dal semplice constatare i propri pensieri e desideri più intimi. Implica nutrire un atteggiamento interiore di attenzione a Dio e di ricettività.
Ascoltare la voce della coscienza implica, dunque, da parte nostra, un'opera per illumini la nostra coscienza. In questo senso, anche la preghiera è un'opera che si intraprende per ottenere determinati risultati. Di fatto, Newman ci invita a considerare la preghiera un dovere, una forma di allenamento spirituale che dobbiamo compiere per acquisire un privilegio, quello della comunione con Dio.
Vorrei illustrare questo avvalendomi di estratti da alcuni sermoni. Un'osservazione preliminare riguarda il posto della preghiera nella vita cristiana. Come sappiamo, la prima Chiesa ha costituito per Newman il modello della Chiesa e della vita cristiana. Non sorprende che egli sottolinei il posto centrale della preghiera in questa Chiesa. Le due attività legate fra loro, ovvero la preghiera e ciò che chiama vigilanza, fanno parte della sua definizione della vita cristiana dei primi secoli. "Ecco la definizione vera e propria del cristiano: una persona che cerca Cristo".
Dalla vigilanza Newman passa poi alla preghiera, alla quale essa è intimamente legata: san Pietro, che una volta mancava di vigilanza, ripete la lezione: "La fine di tutte le cose è vicina. Siate dunque moderati e sobri, per dedicarvi alla preghiera" (1 Pietro, 4, 7). Come Pietro afferma in questo testo, la preghiera è dunque un'altra caratteristica dei cristiani delle Scritture.
Infine, è chiaro che preghiera qui non significa solo implorazione e richiesta di intercessione, ma intima comunione con Cristo presente nei nostri cuori. Per Newman è stata questa l'esperienza dei primi cristiani apostolici: "Non c'erano barriere, nubi né cose terrene a interporsi fra l'anima del primo cristiano il suo Salvatore e Redentore. Cristo era nel suo cuore, e quindi tutto ciò che proveniva dal suo cuore i suoi pensieri, le sue parole e le azioni, sapevano di Cristo. Il Signore era la luce e quindi il cristiano risplendeva".
Una seconda osservazione riguarda il rapporto fra predicazione e preghiera. Il sermone inedito, pronunciato due volte in occasione dell'anniversario della sua nomina presso St. Mary's, dal titolo Sugli oggetti e gli effetti della predicazione, è una riflessione su tale rapporto. È paradossale: Newman, che di lì a poco sarebbe diventato il predicatore più celebrato della sua epoca, considerava la predicazione meno importante della preghiera collettiva. "Se chiedessimo qual è la ragione principale per cui si viene in chiesa, molte persone, penso, risponderebbero senza esitazione "per ascoltare la predicazione della parola di Dio", ma è una risposta errata. (...) Il grande compito, quello difficile, e il più benedetto e gioioso del Vangelo, è costituito dalla preghiera e dalla lode di molte persone insieme. Cristo promette alla preghiera collettiva una benedizione speciale che non ha promesso alla preghiera privata".
Quanto agli elementi specifici dell'insegnamento di Newman sulla preghiera, il primo riguarda la preghiera come dovere. Egli applica alla pratica della preghiera la terminologia della morale o dell'etica. Quindi descrive la preghiera come un dovere che tutti i cristiani devono compiere volontariamente per acquisire ciò che egli chiama un privilegio. Il sermone Tempi di preghiera privata (1829) insiste sulla necessità di autodisciplina spirituale espressa nella pratica di tempi fissi e regolari di preghiera. L'accento qui cade sulla nozione di dovere: Newman insiste sul fatto che è solo con l'esperienza di quel dovere che possiamo sapere quali privilegi ne scaturiscono. "Fino a quando non abbiamo esperienza dei doveri della religione non riusciremo a comprendere doverosamente i privilegi".
V'è poi il tema della preghiera come forma di disciplina spirituale. Nel sermone citato, Newman sostiene che l'abitudine alla preghiera regolare ha un effetto calmante su mente e anima: "Tempi precisi di preghiera sono necessari, in primo luogo come strumento per rendere la mente serena e l'indole generale più religiosa, in secondo luogo come strumento per praticare una fede seria e quindi ricevere in risposta una benedizione più certa di quella che si potrebbe ottenere in qualsiasi altro modo". In particolare, si rivolge a quei cristiani che hanno la convinzione evangelica che l'essenza della religione stia nella sua intensità emotiva, mentre, sostiene, la vera vita cristiana, di cui fa parte la preghiera, richiede autodisciplina. "Colui che smette di pregare con regolarità perde il mezzo principale per ricordarsi che la vita spirituale è obbedienza al Legislatore, non un semplice sentimento o gusto".
Lo stesso tipo di argomentazione è presente nel sermone Culto religioso un rimedio all'eccitazione (1835). Anche l'esperienza della gioia improvvisa per la scoperta del Vangelo, dichiara Newman, è una condizione eccitante, e tutti gli stati di eccitazione hanno tendenze pericolose. Quindi non si può mai stare tranquilli con un nuovo convertito perché nello stato di eccitazione in cui si trova all'inizio, le emozioni hanno molta più influenza della ragione o della coscienza e, a meno che egli non se ne curi, esse possono trascinarlo, come fa il vento, in una direzione sbagliata.
Il predicatore condanna il consiglio che viene dato spesso e che è lungi dall'essere irrilevante oggi, in particolare fra i giovani e in certi circoli "carismatici" e "revivalistici": "indulgi nell'entusiasmo". Al contrario, Newman invita "le persone inquiete" a "concentrarsi sul culto della Chiesa, che armonizzerà la loro mente con la legge di Cristo e la alleggerirà". La persona che "desidera portare nel suo cuore la presenza di Cristo deve solo "lodare Dio" e far sì che le parole del santo salterio di Davide le siano familiari, un servizio quotidiano, sempre ripetute e tuttavia sempre nuove e sempre sacre. Preghi e soprattutto permetta l'intercessione. Non dubiti del fatto che la forza della fede e della preghiera agisce su tutte le cose con Dio".
Ecco dunque la funzione definitiva della preghiera per Newman. È uno strumento che ci permette di avvicinarci a Dio e di accogliere la sua presenza nel nostro cuore oppure, e forse è anche più esatto, serve a Dio per avvicinarsi di più a noi.
(©L'Osservatore Romano 30-31 maggio 2011)
Monday, May 30, 2011
Thursday, May 5, 2011
Il card. Newman e Giovanni Paolo II: il pensiero di due grandi a confronto
Affronterà il pensiero di questi due beati, don Graziano Borgonovo, officiale della Congregazione per la dottrina della fede. Borgonovo nato a Monza nel 1960 , laureatosi in Filosofia alla Cattolica, ha insegnato lettere alla media e storia e filosofia al liceo del Collegio Bianconi e al Liceo Dehon. Nel 91 è consacrato sacerdote da mons. Eugenio Corecco a Lugano, conseguendo il dottorato in teologia nel '95 a Friburgo. Dal 1999 è professore di Teologia morale fondamentale alla Pontificia Università Santa Croce .
Marina Seregni
Monday, April 4, 2011
Cinema: presentato a Madrid 'The Unseen World' di Liana Marabini
Tuesday, March 29, 2011
Giornata di studio alla Gregoriana
Tuesday, March 1, 2011
CARD. BAGNASCO: LA COSCIENZA È “L’ECO DELLA VOCE DI DIO”
Sunday, February 20, 2011
Conoscere il beato John Henry Newman ed il suo pensiero su fede e ragione
Friday, February 18, 2011
La formazione della coscienza nel Beato John Henry Newman
"La formazione della coscienza nel Beato John Henry Newman" è il titolo dell'incontro che si terrà lunedì 28 febbraio alle ore 18, presso la Sala Minor Consiglio di Palazzo Ducale in Piazza Matteotti. Relatori saranno P. Hermann Geissler, direttore del Centro Internazionale Amici di Newman e Lina Callegari, autrice del volume "John Henry Newman. La ragionevolezza della fede". Interverrà il Cardinale Angelo Bagnasco. Coordinerà il dibattito il giornalista Alfredo Majo. L'iniziativa è a cura dell'Ufficio Diocesano per la cultura in collaborazione con la Congregazione dell'Oratorio di S. Filippo Neri, l'Istituto Superiore di Scienze Religiose di Genova e l'associazione 'Iter Agentes'
Per informazioni:
Arcidiocesi di Genova
Ufficio per la cultura
Piazza Matteotti, 4 - 16123 Genova
Tel. 010 2700.233 / .259
e-mail: cultura@diocesi.genova.it
Monday, February 14, 2011
Egli “illumina ogni uomo che viene al mondo”. Suoi sono i dettami del senso morale ed i rimproveri della coscienza; a Lui devono essere attribuite le ricche doti dell’intelletto, l’illuminazione del genio, l’immaginazione del poeta, la sagacia del politico, la sapienza (come la chiama la Scrittura) che ora innalza e decora il Tempio, ora si manifesta in proverbi e parabole. Gli antichi proverbi delle nazioni, i maestosi precetti della filosofia, le luminose massime della legge, gli oracoli della sapienza individuale, le regole tradizionali di verità, giustizia e religione, anche se miste alla corruzione e svilite dall’orgoglio del mondo testimoniano la Sua azione originale e la Sua presenza paziente. Anche dove c’è una ribellione abituale contro di Lui o una profonda e diffusa depravazione sociale la manifestazione nascosta o eroica della virtù naturale, così come l’aspirazione del cuore verso ciò che non ha, e il suo presentimento verso i veri rimedi sono da ascriversi all’Autore di ogni bene. Le aspettative o i ricordi della Sua gloria visitano la mente del saggio autosufficiente o del pagano devoto; le Sue parole sono sul muro del tempio indiano o dei portici greci. Egli si introduce, quasi concorre a suo piacimento e nella stagione da Lui scelta, nelle trame dell’incredulità, della superstizione e del falso culto ed Egli muta il carattere degli atti con la Sua azione dominatrice. Egli accondiscende, sebbene non dia loro alcuna sanzione, agli altari e ai templi dell’impostura, e sostituisce il Suo fiat alle stregonerie. Parla tra gli incantesimi di Balaam, evoca lo spirito di Samuele nella caverna della strega, profetizza del Messia per bocca della Sibilla, costringe Pitone a riconoscere i suoi ministri e battezza per mano dei miscredenti. Egli è con il drammaturgo pagano nel denunciare l’ingiustizia e la tirannia e nei suoi presagi di vendetta divina sul delitto. Anche nelle impudiche leggende della mitologia popolare Egli estende la Sua ombra, e compare confusamente nell’ode o nell’epica come nelle acque mosse o nei sogni fantasiosi. Tutto ciò che è buono, tutto ciò che è vero, tutto ciò che è bello, tutto ciò che è benefico, grande o piccolo, perfetto o frammentato, naturale o soprannaturale, morale o materiale, proviene da Lui.
(L'Idea di Università. Roma: Studium, 2005, pp. 72-73)
Friday, February 11, 2011
Verso il Meeting 2011. John Henry Newman
Conferenze sul teologo, poeta, filosofo, parroco di Oxford, convertitosi al cattolicesimo, recentemente beato, in preparazione alla mostra che sarà al prossimo Meeting
A Londra, in preparazione a questo evento, ci saranno una serie di conferenze presso l'Università di Westminster, con lo scopo di conoscere e approfondire la sua vita e l’importanza di essa. La prima conferenza sarà tenuta da Ian Ker, professore di teologia presso l’Università di Oxford, autore e curatore di oltre 20 libri di Newman, tra cui la biografia definitiva, e parroco nella Parrocchia cattolica di Burford. L’appuntamento è per mercoledì 9 febbraio alle 19.15, ora locale, all’Università di Westminster, e il tema sarà: “Il valore della conoscenza e della coscienza nell’esperienza di Newman”.
Gli appuntamenti successivi saranno:
Mercoledì 23 marzo 2011, ore 19.15: “L’influenza di Newman sul pensiero di Mons. Luigi Giussani: la comunione cristiana porta alla vera liberazione”
Mercoledì 13 aprile 2011, ore 19.15: “Newman e la bellezza: lo splendore della verità”
Mercoledì 18 maggio 2011, ore 19.15: “L’idea di Università: l’educazione in Newman”
Mercoledì 15 giugno 2011, ore 19.15: “Un dialogo tra Newman e Elgar: il sogno di Geronzio”
Tuesday, February 8, 2011
L'uomo più pericoloso di tutta l'Inghilterra
L'uomo più pericoloso
di tutta l'Inghilterra
Pubblichiamo ampi stralci di una delle relazioni pronunciate al simposio internazionale "Il primato di Dio nella vita e negli scritti del beato John Henry Newman" che si è tenuto alla Pontificia Università Gregoriana per iniziativa dell'International Centre of Newman Friends.
di DONNA ORSUTO
Pontificia Università GregorianaL'impegno del beato John Henry Newman per la promozione di un laicato intelligente e istruito è ben noto. Quale "grande campione del ministero profetico del laicato cristiano", Newman era convinto del fatto che soltanto un laicato ben formato sarebbe stato pronto ad andare per il mondo e a parlare in modo convincente della propria fede. Nel 1851 scriveva con passione ed eloquenza su questa tema: "Non dovete nascondere il vostro talento o tenere celate le vostre virtù. Desidero laici non irruenti nel parlare né litigiosi, ma persone che conoscano la propria religione, che la pratichino, che sappiano qual è il loro ruolo, che sappiano cosa hanno e cosa non hanno, che conoscano il loro credo tanto bene da poterlo diffondere, che conoscano così bene la storia da poterlo difendere. Desidero laici intelligenti e istruiti (...) Desidero che ampliate le vostre conoscenze, coltiviate la ragione, riflettiate sulla relazione di verità, impariate a vedere le cose così come sono, a capire in che modo la fede e la ragione sono in rapporto fra loro, quali sono le basi e i principi del cattolicesimo". Le idee di Newman sull'istruzione del laicato e, in particolare, sulla consultazione di quest'ultimo su questioni di fede, però, non erano molto popolari nella sua epoca. Uno dei suoi detrattori, monsignor George Talbot, in una lettera al cardinale Henry Edward Manning, si lamenta del fatto che il laicato "sta mettendo in pratica la dottrina insegnata dal dottor Newman", e prosegue: "Qual è il ruolo dei laici? Cacciare, sparare, intrattenere. Queste cose le padroneggiano, ma non hanno alcun diritto di intromettersi in questioni ecclesiastiche (...). Il dr. Newman è l'uomo più pericoloso d'Inghilterra".
Sia negli scritti formali sia nei rapporti con i suoi amici laici, l'impegno di Newman nel promuovere la vocazione e la missione del laicato è indubbio. Infatti, come osserva Ian Ker: "Nella sua lunga vita, dagli inizi nella Chiesa d'Inghilterra e dall'influenza che vi esercitò, in particolare a Oxford, alla fine, come cardinale della Chiesa cattolica romana, è possibile rintracciare nel pensiero di Newman sul laicato un modello costante e armonioso. In Newman rintracciamo sempre la preoccupazione di rendere il laicato una forza attiva, all'opera sia nella Chiesa sia nel mondo in generale".
Concentriamoci su una amicizia e un sermone in particolare. L'amico era James Robert Hope-Scott (1812-1873), seguace del trattarianesimo e avvocato di successo, che divenne cattolico romano nel 1851. L'amicizia fra Hope-Scott e Newman cominciò a Oxford nel 1837 e durò circa trentacinque anni. Soltanto nelle lettere e nei diari, Hope-Scott viene menzionato 481 volte. Newman e altri lo consultavano spesso e "Chiedi a Hope" divenne quasi un detto in quel circolo di amici. Quel che ci interessa è il sermone intitolato "Nel mondo, ma non del mondo", predicato da Newman alla messa esequiale di Hope-Scott celebrata nella Jesuit Church a Farm Street, a Londra nel maggio 1873.
Questo sermone, e suggerirei la spiritualità dei laici secondo Newman, si impernia sul versetto di Giovanni "e il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno!" (2, 17). La spiritualità dei laici secondo Newman è opportunamente legata alle sue idee sul mondo e alla sfida perenne del relazionarsi del cristiano con quest'ultimo. In termini più semplici, ripetendo il titolo di questo sermone: come può un cristiano vivere nel mondo senza essere del mondo?
In questo sermone, Newman parla con eloquenza di vocazione come del dovere di mettere le proprie qualità al servizio degli altri. Dice: "Non siamo nati per noi stessi, ma per la nostra specie, per il nostro prossimo, per il nostro Paese". Riconosce anche che "dobbiamo molto a quanti si dedicano alla vita pubblica", ma questo servizio abnegato non è sempre facile e spesso può portare a un compromesso in cui si è "obbligati a una routine" e dove, a volte, si può operare soltanto "quel che si considera essere la seconda miglior scelta". In primo luogo Newman propone una spiritualità laica di impegno attivo nel mondo. Riferendosi all'amico scomparso Hope-Scott, suggerisce che quel che gli aveva permesso di rendere un'efficace testimonianza cristiana in mezzo alle responsabilità terrene era stato il dono della fede.
Questo tema è anche evidenziato in altri scritti di Newman, in particolare quando si concentra sui politici. Nel suo articolo Un Paese migliore: la vita pubblica secondo Newman, Edward Short propone un meraviglioso insieme di citazioni di Newman per dire che i funzionari pubblici non possono trascurare la propria religione quando entrano nella vita pubblica.
In secondo luogo, Newman propone una spiritualità laica di attaccamento a Cristo e di distacco dal mondo. In questo sermone per il suo amico scomparso, osserva che Hope-Scott "era libero dall'ambizione in modo singolare", cosa che è attribuibile alla "sua speciale religiosità della mente" e "al suo senso intimo della vanità di tutte le differenze secolari e alla sua devozione a Dio che solo è fedele e vero".
Questo attaccamento a Cristo conduce a un gioioso arrendersi a Cristo nelle vicissitudini della vita. Nel sermone per le esequie di Hope-Scott, Newman osserva che il suo amico "aveva una mente giovane, che mantenne sempre, fino all'ultimo, la sua gioiosa energia". Nel suo sermone Il cristiano apostolico, Newman afferma che una caratteristica dei primi cristiani era "la gioia in tutte le sue forme, non solo un cuore puro, non solo mani pulite, ma (...) un'espressione gaia". Newman afferma: "Io dico gioia in tutte le sue forme, perché nella gioia autentica sono incluse tutte le numerose grazie; le persone gioiose sono amorevoli, indulgenti, munifiche. La gioia, se deve essere gioia cristiana, la gioia raffinata dei mortificati e dei perseguitati, rende gli uomini pacifici, sereni, grati, gentili, affettuosi, miti, gradevoli, speranzosi. Sono pieni di grazia, dolci e vincenti".
La visione di Newman della vocazione laica ha senso soltanto nel contesto dell'eternità. La sua spiritualità di impegno attivo con il mondo bilanciato da un attaccamento a Cristo ha una dimensione escatologica. Come afferma san Paolo: "Se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini" (1 Corinzi, 19).
Molti studiosi di Newman sottolineano la dimensione escatologica quale elemento essenziale dell'insegnamento spirituale di Newman. Non sorprende che essa emerga come sua idea chiave della spiritualità laica. Newman evidenzia che ciò che equilibra l'impegno per Cristo nel mondo è un senso di veglia e di attesa di Cristo. Il 13 aprile 1882, Newman scrive una lettera a Emily Bowles, commentando le Memoirs of James Hope-Scott di Ornsby in corso di pubblicazione: "Le azioni e le lettere di Hope-Scott sono tanto intense da esprimere il suo carattere meraviglioso e non hanno bisogno di alcun commento. Dico "meraviglioso" perché è difficile trovare un uomo del mondo tanto profondamente religioso, tanto santo interiormente. Un uomo può avere molti pregi, ma non avere interiorità. Hope-Scott parla da sé".
Questa interiorità tipica della spiritualità di Hope-Scott non lo teneva lontano dagli altri. In un altro sermone, Newman spiega che i cristiani sono chiamati a svolgere i propri doveri nella vita proprio come tutti gli altri, ma c'è una differenza: "Vivere in cielo con i pensieri, le motivazioni, le finalità, i desideri, i gusti, le preghiere, le intercessioni, perfino mentre si è ancora sulla terra, sembrare come gli altri, essere impegnati come gli altri, passare inosservati nella folla o persino essere disprezzati od oppressi, o forse in altre condizioni, ma avere comunque un canale segreto di comunicazione con l'Altissimo, un dono che il mondo non conosce".
Ecco uno scambio epistolare avvenuto fra i due amici: John Henry Newman e James Robert Hope-Scott. La vigilia di Natale del 1857, Newman scrisse a Hope-Scott ricordandogli come cinque anni prima aveva trascorso il Natale "su al Nord" con la famiglia Hope-Scott. Scrive: "Cinque anni, mi prende la malinconia, perché è come una campanella che passa, portando via il tempo. Spero non sia errato dire che il trascorrere del tempo per me ora è triste e orribile, perché mi ricorda quando ho dovuto fare, quanto ho fatto e quanto poco tempo ho ancora per farlo. Pensavo che sarei vissuto a lungo, ma ora non so che pensare. Comunque non sono riflessioni adatte alla vigilia di Natale".
Il 30 dicembre 1857, Hope-Scott risponde con grande maestria alla lettera un po' cupa di Newman. Leggendo tra le righe si nota l'influenza fortissima che Newman aveva su Hope-Scott, il quale riprende nella sua risposta ciò che Newman gli aveva insegnato. A questo punto Hope-Scott ha quarantasette anni, Newman ne ha dieci di più e sono amici da venti: "Caro padre Newman, (...) non mi piacciono i vostri mugugni. Avete fatto più della maggior parte delle persone, e non siete mai stato ozioso e sul modo in cui l'avete fatto con dirò nulla. Potrete anche pensare che avreste potuto farlo meglio, ma ricordo che una volta mi diceste che "non c'è nulla che non avremmo potuto fare meglio" e questo mi fu molto di conforto perché, ponendo ogni fallimento particolare, sotto la legge generale dell'infermità, mi tranquillizzò e mi rese umile. Dunque, per quanto riguarda il futuro: avrete tempo per ciò che siete incaricato di fare mentre di ciò di cui non siete incaricato non dovete preoccuparvi. Ma ho scritto un sermone! So che è piuttosto impudente da parte mia (...) Tiratevi su e cominciate a lavorare, non come se doveste fare qualcosa di particolare prima di morire, ma come se doveste fare del vostro meglio fino al momento di morire".
Questa risposta coglie un elemento essenziale della spiritualità di Newman, tanto appropriato non solo per i laici, ma anche per tutti i cristiani: l'idea di vivere secondo la divina provvidenza, afferrando l'attimo, accettando i doveri che dobbiamo compiere. Si tratta di una spiritualità pratica così adatta alle donne e agli uomini laici di oggi che sono chiamati a vivere la loro vocazione e la loro missione nel mondo.
(©L'Osservatore Romano - 7-8 febbraio 2011)
Monday, January 24, 2011
Friday, January 21, 2011
Venerdi 21 Gennaio 2011 GIORNALISTI Un servizio alla coscienza Newman e la comunicazione | |
“Non dovete essere ‘produttori a qualunque costo del consenso’ di chi vi legge, vede, o ascolta. Non è la persuasione il vostro compito primo, ma la convinzione. E la convinzione è il risultato di una argomentazione razionale, semplice e cordiale, mite e luminosa”. È l’invito rivolto ai giornalisti dal card.Carlo Caffarra, arcivescovo di Bologna, nella “lectio magistralis” tenuta oggi (21 gennaio) sul tema “J. H. Newman: una proposta educativa per la comunicazione oggi”. L’appuntamento rientra nell’ambito della Festa regionale per la ricorrenza di san Francesco di Sales, patrono dei giornalisti (24 gennaio). Per il cardinale, Newman è “il pellegrino in cammino verso la verità che salva, oltre le apparenze e le ombre”; nei suoi scritti, infatti, “non parla mai del cammino verso la verità come di un’ascensione, una salita continua verso Dio dal grado inferiore al grado superiore” ma “configura il suo cammino verso la verità come un iter, un cammino, un pellegrinaggio faticoso”. Compagno di viaggio. Il teologo inglese visse “tre momenti fondamentali” nel suo percorso verso la verità: la “prima conversione”, quando riconobbe che “le uniche realtà veramente consistenti sono Dio e l’anima, cioè il nostro essere un io spirituale”; la “seconda conversione”, che lo portò a ritenere che il “più grande pericolo” corso dalla fede cristiana è la “negazione del principio dogmatico”; infine, la “terza conversione” alla Chiesa cattolica, nel momento in cui ebbe “la certezza che essa era la vera Chiesa”. Ma “quale è stato il dinamismo interiore che ha mosso Newman in questa ricerca”, si domanda il cardinale, “la forza che dal di dentro lo spingeva a passare ‘ex umbris et imaginibus in veritatem’?”: “La sua coscienza. Primato della verità e primato della coscienza sono in Newman come il concavo e il convesso della stessa figura. L’avere contrapposto l’uno all’altro è stato il più esiziale degli errori moderni”. Nel pensiero del teologo, infatti, “la coscienza è la capacità di riconoscere la verità e le sue esigenze negli ambiti decisivi per il destino eterno dell’uomo: la morale e la religione”. Quindi, la coscienza è “l’originaria, permanente, imprescindibile rivelazione naturale che Dio fa di se stesso all’uomo” ed è “la sua prima – non in senso cronologico – Parola che Dio dice all’uomo”. In tal senso, sottolinea il card. Caffarra, “le conversioni di Newman sono il cammino della sua coscienza, cioè dell’obbedienza alla verità che gradualmente si mostrava alla sua persona” ovvero “il contrario di un cammino della propria soggettività che afferma se stessa in totale autonomia” perché “il concetto che Newman ha della coscienza è esattamente l’opposto del concetto elaborato dal soggettivismo moderno”. Il motto cardinalizio preso da san Francesco di Sales “cor ad cor loquitur”, ricorda l’arcivescovo, “denota in primo luogo un metodo di comunicazione” poiché “Newman è, nelle sue opere, un ‘compagno di viaggio’” che “si mette a fianco del suo lettore o uditore per condurlo con argomentazioni semplici e profonde alla scoperta della verità”. Per questo “la sua scrittura affascina non solo dal punto di vista della chiarezza espositiva, ma perché ti fa ‘sentire’ la vicinanza di un maestro che ti guida”. Esserci dentro. Dall’insegnamento di Newman si apprende che “la forma per comunicare la verità che salva è quella di ‘esserci dentro’, ovvero di ‘presentarsi in carattere’”. Da qui il richiamo del card. Caffarra ai giornalisti: “Il vostro è un servizio alla coscienza perché giudichi con verità”. Si può, infatti, fare “un uso strumentale della propria ragione, quando si parla o si scrive”: “Uso strumentale significa che non intendo giudicare lo scopo che mi prefiggo – spiega l’arcivescovo –; mi preme solo trovare la modalità comunicativa per raggiungerlo. Un uso strumentale della ragione comporta non raramente interloquire non con la coscienza ma con le passioni e/o gli interessi dell’interlocutore”. Cambiare la prospettiva, adottare una visione orientata alla responsabilità e alla verità è invece più difficile e “certamente o molto probabilmente altri vi diranno o anche voi sarete tentati di pensare che questa posizione non la si può tenere nell’agorà della comunicazione”. Tuttavia, conclude il card. Caffarra, “si può scrivere davanti alla piazza; si può scrivere davanti al potente di turno” ma “Newman ci insegna a scrivere e parlare ‘davanti ad ogni coscienza’: ‘al cospetto di Dio’”. |
Sunday, January 2, 2011
L'amore e il coraggio
Giovedi 30 Dicembre 2010 2010: L'ANNO DI NEWMAN L'amore e il coraggio Seguire la verità a qualsiasi costo Angelo Bottone - docente filosofia (Università Dublino) |
Benedetto XVI, ripercorrendo nel tradizionale discorso alla Curia Romana l’anno appena trascorso, è tornato a parlare del suo “indimenticabile viaggio nel Regno Unito”, viaggio inizialmente segnato di timori ma che si è poi rivelato fruttuoso e ricco di soddisfazioni. Il Santo Padre ha voluto ricordare in particolare l’evento che ha contraddistinto non solo il viaggio ma probabilmente l’intero anno: la beatificazione del cardinale John Henry Newman. Due aspetti del neo-beato sono stati sottolineati nel discorso alla Curia, la riflessione sulla coscienza e le sue conversioni. L’intera vita di Newman è stata un cammino di conversione guidato dalla coscienza intesa nel duplice senso di capacità di riconoscere il bene e spinta a compierlo. “Coscienza è capacità di verità e obbedienza nei confronti della verità”, ha ricordato Benedetto XVI e, pertanto, impone a tutti “il dovere di incamminarsi verso la verità, di cercarla e di sottomettersi ad essa laddove la incontra”. Coscienza e conversione sono strettamente legate perché l’una indica la strada all’altra. Nel Saggio sullo sviluppo della dottrina cristiana, scritto proprio nel periodo che ha preceduto il suo accoglimento nella Chiesa cattolica, Newman scriveva che vivere è cambiare ed essere perfetti è aver cambiato spesso. La verità ci è data a conoscere nella storia e questa conoscenza si compie necessariamente attraverso uno sviluppo. Ma come distinguere lo sviluppo autentico di una dottrina da una sua deviazione? Questa domanda aveva per il teologo inglese una valenza non solo teoretica ma esistenziale, infatti il grande amore per la verità lo stava portando a mettere in discussione la Chiesa anglicana nella quale era cresciuto e che si era impegnato a servire. La stessa domanda, d’altronde, se la pone chiunque si trovi a far conto con il tempo che passa e, esaminando la propria coscienza, si chiede se ci sono stati nella propria vita dei miglioramenti, una trasformazione positiva. Come risposta Newman elaborò una sua teologia della storia, formulando dei criteri con i quali poter operare una distinzione tra sviluppi dottrinali autentici e distorsioni. Quello che è forse il suo maggiore contributo alla teologia gli provocò però incomprensioni e diffidenze. Infatti il difficile equilibrio, discusso in diverse opere, tra la necessità di cambiare e il pericolo di tradire le proprie origini, toccava il cuore stesso della fede cristiana, attirando il sospetto di quanti non erano abituati al suo argomentare. Come ha ricordato Benedetto XVI nel discorso alla Curia Romana, “nella teologia cattolica del suo tempo, la sua voce a stento poteva essere udita. Era troppo aliena rispetto alla forma dominante del pensiero teologico e anche della pietà. Nel gennaio del 1863 scrisse nel suo diario queste frasi sconvolgenti: ‘Come protestante, la mia religione mi sembrava misera, non però la mia vita. E ora, da cattolico, la mia vita è misera, non però la mia religione’. Non era ancora arrivata l’ora della sua efficacia. Nell’umiltà e nel buio dell’obbedienza, egli dovette aspettare fino a che il suo messaggio fosse utilizzato e compreso”. Grazie alla beatificazione, il 2010 ha visto una riscoperta di Newman. Quale messaggio per il futuro ci ha consegnato? Egli è stato definito uno dei padri del Concilio Vaticano II e può ancora oggi illuminare la Chiesa postconciliare nell’affrontare il problema di come riconoscere e preservare l’essenziale senza trascurare il sempre necessario aggiornamento. Dalla vita del beato Newman possiamo trarre due insegnamenti fondamentali: l’amore per la verità e il coraggio di seguirla ovunque si mostri, anche a costo di rompere con la propria tradizione. Newman però parla oggi non solo alla Chiesa o ai teologi ma anche ai singoli fedeli. L’inizio dell’anno è sempre tempo per nuovi buoni propositi. Quale migliore proposito possiamo darci se non quello della conversione del cuore, seguendo l’esempio del neo-beato? Ascoltiamolo, nelle parole di un sermone predicato nel periodo anglicano, dal titolo La testimonianza della coscienza: “Cos'è quindi quello che manca a noi, che professiamo la religione? Lo ripeto: ci manca la disponibilità ad ‘essere cambiati’. La disponibilità a sopportare (se posso usare questa parola) che Dio onnipotente ci cambi. Non ci piace abbandonare il nostro vecchio io e, in tutto o in parte, nonostante ci sia offerto gratuitamente, rimanendo attaccati al nostro modo di vedere e di agire. Ma quando qualcuno si rivolge a Dio per essere salvato, secondo me, l'essenza della vera conversione è consegnare se stessi, senza riserve, senza condizioni. Questa però è un'affermazione che molte persone che si volgono a Dio non riescono ad accettare. Desiderano essere salvate, ma a modo loro; desiderano arrendersi alle loro condizioni, portar via con sé i propri beni; il vero spirito di fede, al contrario, porta una persona a staccare lo sguardo da se stessa, per volgerlo verso Dio, la porta a non preoccuparsi dei propri desideri, delle proprie abitudini, della propria importanza o dignità, dei propri diritti o opinioni, fino a poter sinceramente dire: ‘Parla, o Signore, perché il tuo servo ti ascolta’ (1 Sam 3,9). Il profeta Isaia dice: ‘Eccomi, manda me!’ (Is 6,8). E ancora più pertinenti sono le parole di san Paolo quando fu fermato sulla via di Damasco, dalla visione miracolosa: ‘Signore, che cosa vuoi che io faccia?’ (At 22,10). Questa è la vera voce di chi si consegna totalmente: ‘Signore, che cosa vuoi che io faccia? Conducimi secondo la tua volontà; comunque sia, piacevole o dolorosa, io la farò’”. |